Venerdì 22 Novembre 2024

Il confine ambiguo tra il bene e il male sotto le "Luci di luglio" di Gian Mauro Costa

Ci sono romanzi che nascono dalla necessità, come ci dice lo scrittore palermitano, regista e documentarista, Gian Mauro Costa, «di cercare le radici storiche dei fatti, riesumare pagine dimenticate e scovare le chiavi di comprensione della realtà odierna». Così è nato “Luci di luglio” (Mondadori) a suo modo un “esordio” narrativo giacché Costa “delira” dal solco del giallo coltivato per anni. «Quando ho iniziato a scrivere “Yesterday”, il primo romanzo, non ero certo che potesse essere classificato come un giallo. E poi è stato così per altri cinque romanzi (tutti pubblicati da Sellerio), una dozzina di racconti, due personaggi seriali. Ho trovato nel giallo la formula narrativa ideale per raccontare le città negli angoli più nascosti e fare giornalismo d’inchiesta, purtroppo quasi scomparso nella carta stampata, e che io avevo invece praticato nella redazione de “L’Ora”». Però il “giallo” di Costa è stato sempre di tipo sociale-antropologico e i suoi personaggi, come la poliziotta Angela Mazzola, che agiscono in una Palermo «sublime e sudicia», dalle mille storie sotterranee, amano scavare nei fatti. Proprio come fa l’autore in “Luci di luglio”, una sorta di farsa grottesca, sulla scena di fatti storici, che deflagra in una commedia del male o del malcostume dove persiste qualche elemento di “giallo”. «La narrazione che mi piace -dice- non è quella che si limita all’intrigo poliziesco ma quella che sa raccontare personaggi e vicende nel loro contesto sociale, nelle loro psicologie, nelle interrelazioni con altri contesti urbani. Per questo ritengo che siano cadute le barriere tra romanzi di genere e non. Così in “Luci di luglio” c’è anche una venatura di noir, e, soprattutto, un ritmo da noir». Ma una costante c’è nelle storie di Costa: la sua Palermo, minuziosamente rappresentata. «È ovvio che sia il mio contesto narrativo privilegiato. Però mi spingo talvolta verso la provincia, altre province e città, pure del Nord. Compare anche la provincia di Messina, a cui sono legato perché ci sono le mie origini familiari». Quella di “Luci di luglio” è la «strana Palermo» degli anni Sessanta «ricostruita attraverso documentazioni e archivi dei giornali, una città che viveva le difficoltà del dopoguerra e associava alle macerie belliche la devastazione dei suoi gioielli liberty per dare spazio a ciniche speculazioni edilizie e corruzioni. Non si avvertivano ancora i bagliori del boom economico e si viveva invece, più che altrove, il dramma della disoccupazione». Il 1960 è «un anno fondamentale per la storia siciliana e italiana. Si chiude la pagina della Resistenza e del dopo fascismo, si apre una nuova fase, politica e culturale, sancita dalla nascita del centrosinistra. Accanto ai vecchi valori, ne sorgono altri, sorretti dalla grande diffusione della televisione. Nel luglio 1960 del mio romanzo ci sono i tragici scontri di piazza, durante il governo Tambroni, con i morti dimenticati di Palermo e Catania, ma ci sono anche i riflettori su Monreale della trasmissione Rai “Campanile Sera” condotta da Mike Bongiorno che raduna folle in una competizione -più che sportiva, antropologica- tra Comuni del Sud e del Nord». È stato detto da Alberto Rollo che questo è un romanzo di formazione e deformazione, perché “Luci di luglio”, nella cornice storica descritta, inscena una storia d’invenzione, con «due adolescenti –un muratore e un cameriere- travolti dagli avvenimenti e che, per rabbia e frustrazione, elaborano un piano balordo: sequestrare un professore, talento della matematica, impegnato nelle gare culturali di “Campanile Sera”. Le cose andranno in modo inaspettato e segneranno le loro esistenze. Quei fatti condizioneranno la loro formazione e, seguendo la voce di uno di loro, assisteremo alla “deformazione” dei valori iniziali, sia nella vita privata che in quella collettiva. Il luglio del 1960, insomma, ci farà capire meglio la Sicilia e l’Italia di oggi». Ma “Luci di luglio”, è pure una storia di illusioni perdute nelle vicende di personaggi “minimi”, perché Costa è convinto che «le storie delle persone comuni abbiano un impatto narrativo molto più forte rispetto alle vicende dei personaggi famosi, già deformati da giornali, saggi, magari inchieste giudiziarie». E fa un esempio sulla mafia: «raccontare la triste vicenda di Graziella Campagna, la ragazza uccisa perché nella sua lavanderia di Villafranca Tirrena era finito per caso uno scottante “pizzino” di un boss non fa capire molto di più l’efferatezza di Cosa Nostra?». Perciò, il cuore del romanzo, nel confine ambiguo tra bene e male, tra falsi vincitori e i sempre vinti, metafora dell’Italia e degli italiani nel gioco della vita, è, in fondo, il fallimento, nonostante alcuni personaggi “crescano” economicamente, professionalmente e politicamente, vendendo la propria dignità e i propri ideali. Tranne il professor Morello, personaggio straordinario, membro del Pensatoio di “Campanile Sera”, che col suo riso filosofico rappresenta la scelta dell’onestà morale e intellettuale. Il libro sarà presentato oggi alle 18 a Messina al Feltrinelli Point.

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