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Così i siciliani scrissero la loro Grande Guerra

Claudio Staiti

«Qui è sepolto uno sconosciuto. Pace: sembra il titolo di un misterioso romanzo umano. Ma è un romanzo molto diffuso». C'è tutta la tragicità della guerra e il senso dell'orrido, l'abitudine alle barbarie, alla crudeltà, «mentre continuiamo a chiamarci uomini», nella testimonianza di Giovanni Presti, originario di Aidone (in provincia di Enna), ufficiale al fronte della Grande Guerra. Il suo carteggio con la fidanzata, depositato all'Archivio Diaristico Nazionale di Pieve S. Stefano e poi pubblicato nel 2003 a cura della figlia, è uno dei tanti documenti, tra cartoline, diari, lettere, appunti memoriali, di soldati semplici e ufficiali siciliani, riportati nel volume “La Grande guerra dei siciliani. Lettere, diari, memorie” (Pacini Editore) da Claudio Staiti, giovane studioso messinese, giornalista, storico di formazione, ricercatore post-doc nella Scuola Superiore di studi Storici dell'Università di San Marino e già dottore di ricerca in Storia Contemporanea all'Università di Messina. Un libro che sarà presentato oggi alle 17,30 alla libreria Mondadori-Ciofalo, a Messina.

Uno studio accuratissimo che riunisce in una raccolta corposa ma di interessante narratività le ricerche, svolte tra vari archivi di Stato, musei storici della Guerra, centri di studi per le migrazioni, da Roma a Genova, da Catania a Trento a New York e al Ministero dell'Interno, oltre che alla Direzione Generale di Pubblica Sicurezza e all'Archivio Storico ex ospedale psichiatrico “San Niccolò” (Siena). In appendice le note, puntuali ed esaustive, approfondiscono i documenti senza appesantire la narrazione.

Come scrive nella prefazione lo storico dell'Università di Catania Giancarlo Poidomani, «l'ampia e documentata ricerca di Staiti rappresenta un importante avanzamento degli studi sull'argomento. Se tantissimi sono stati gli studi relativi alle stesse fonti per il resto dell'Italia, sporadici e a volte di carattere non sistematico sono stati quelli sulla scrittura popolare dei meridionali». Staiti, che ha già tradotto e curato l'edizione italiana della memoria autobiografica di Vincenzo D'Aquila (1892-1975) «Io, pacifista in trincea. Un italoamericano nella Grande guerra», avvalendosi per «La Grande guerra dei siciliani» di una ricca bibliografia (Spitzer, Melograni, Isnenghi, Caffarena, Procacci, Fussell, Leed) sulle scritture dei soldati italiani nella Prima guerra mondiale, e degli studi di ricercatori messinesi (tra gli altri, Fedele, Baglio) e catanesi (Barone, Bonomo, Granata, Poidomani), ha dimostrato con le sue stesse ricerche come l'idea di una Sicilia «lontana dal fronte», i cui abitanti apparivano solo come «traditori», «disertori e renitenti», se non falsi alienati e «matti di guerra», sia uno stereotipo storiografico.

E invece, non solo la Sicilia partecipò al vivace dibattito tra neutralisti e interventisti, ma per la patria e il “nobile” ufficio del soldato inviò tanti giovani (molti di essi appena diciottenni) e meno giovani al fronte, oltre ad aver accolto con generosità nell'isola prigionieri (tra i quali molti ungheresi che rimasero affettivamente legati ai siciliani) e profughi. Dopo il primo sincero afflato per l'ideale di combattere una guerra giusta, “post-risorgimentale”, per il riscatto della libertà che ben valeva il sacrificio della vita, ecco poi lo spaesamento, lo smarrimento di «navigare in un mare ignoto ad occhi chiusi», la consapevolezza che la guerra è un castigo per l'umanità. «Ma almeno l'umanità ne uscisse rigenerata!» si legge nella lettera di un ufficiale alla fidanzata, «io credo però che il mondo sarà più infame e più corrotto di prima».

Tra scritti più colti e messaggi semplici e sgrammaticati nel tentativo di conciliare lingua italiana e dialetto, lettere, cartoline e diari rappresentano una topografia delle sofferenze e dell'indicibile, cui si aggiungeva in tutti la certezza della disumanizzazione della guerra «che trasforma ogni individuo prima in un soldato, poi in un grumo di dolore».

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