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Quelle stragi mafiose che cambiarono il Paese. Intervista al giornalista siciliano Lirio Abbate

«Non mi reputo un eroe ma un operatore dell’informazione». Firmato Lirio Abbate, il giornalista siciliano classe ’71 e direttore de L’Espresso, inserito fra i “100 eroi dell’informazione nel mondo” da Reporters sans frontières. È arrivato il trentennale del 23 maggio, la fatidica e indimenticabile data della strage di Capaci – «un cratere che ha cambiato il percorso politico e storico del nostro Paese» – e dopo il successo con “Faccia da mostro”, “U Siccu” e “Fimmine Ribelli”, Abbate torna in libreria col nuovo libro, un saggio scritto come un thriller, “Stragisti” (Rizzoli), ricostruendo le stragi di mafia di trent’anni fa, la barbara uccisione dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, l’attentato fallito a Maurizio Costanzo, la strage di via dei Georgofili a Firenze, e infine, la bomba di via Palestro, a Milano.

«Sono tornato su questi fatti, sottolineando in che modo la mafia sia stata capace di dichiarare guerra allo Stato. E noi non possiamo dimenticarlo, anzi, dobbiamo capirne le ragioni e conoscere i protagonisti». È vero, sono già passati trent’anni ma non dobbiamo prenderci in giro e indorare la pillola, «Stragisti» è un libro sconcertante, doloroso quanto necessario che si conclude con la battaglia condotta da Lirio Abbate affinché l’ergastolo ostativo non venga spazzato via, «sarebbe un regalo ai boss che non si sono mai pentiti».

Con quali emozioni ha riaperto la ferita delle stragi di mafia?
«Era doveroso farlo perché sono fatti che hanno cambiato la vita di tutti gli italiani. Con quel cratere sull’autostrada di Capaci, la mafia è stata capace di dichiarare guerra allo Stato italiano ed io sono tornato a narrarli con un sentimento di dolore e commozione, con l’obbligo morale di ricordare e raccontare ciò che è accaduto».

Subito dopo quell’esplosione, lei parla di un vaso di Pandora che viene scoperchiato. Cosa cambiò?
«Prima di Capaci, parlare di mafia era complicato. I delitti eccellenti che c’erano stati non erano stati capaci di scuotere le coscienze dei siciliani, ma con la morte di Falcone e Borsellino, divenne impossibile non vedere cosa stava accadendo».

«Stragisti» è molto ben documentato ma si discosta dal genere saggistico, sembra quasi di leggere un thriller. Perché questa scelta?
«Perché voglio arrivare a nuovi lettori e ricerco un linguaggio che renda questi fatti accessibili. È importante, bisogna fare memoria, allargando a chi trent’anni fa non c’era e oggi, prendendo in mano un libro, può ritrovarsi in un racconto più snello ma denso di fatti».

Cosa significa far parte dei 100 eroi dell’informazione nel mondo redatti da Reporters sans frontières?
«È certamente un grande onore, ma, al contempo, è un peso. Non mi reputo un eroe piuttosto un operatore dell’informazione che racconta i fatti che possono essere documentati, senza dover attendere un avviso di garanzia o di un processo per scriverne sulle pagine dei giornali. Questa è l’essenza del giornalismo investigativo».

Lei racconta le difficoltà che incontrò Giovanni Falcone, l’ostracismo di alcuni colleghi, al punto che si mise in dubbio la veridicità dell’attentato dell’Addaura. Perché?
«Oggi può sembrare incredibile, ma prima di venir considerato un martire, c’erano colleghi che lo odiavano e lo isolavano. Le sue richieste venivano puntualmente bocciate dal Csm e quei tradimenti e quelle falsità che molti togati hanno messo in atto ne hanno decretato una fine isolata. Dopo la sua morte trionfò l’ipocrisia e il dottor Falcone divenne un eroe per tutti, ma in vita era una persona non amata».

«Stragisti» non si apre sulla A20 o in uno dei palazzi di giustizia, il suo racconto comincia invece in una sconosciuta stradina di Palermo, via Tranchina 22. Perché?
«Perché quella strada, lì dove si trovava una vera e propria ambasciata mafiosa, un covo in cui si riunivano Riina, i fratelli Graviano e Matteo Messina Denaro, poteva cambiare il percorso della storia dopo le stragi. Eppure, le cose andarono diversamente. Andando alla ricerca di un nuovo linguaggio ho lavorato per anni per trovare la chiave giusta e sono partito da questa sliding doors della storia siciliana per raccontare i fatti di trent’anni fa».

Lei racconta l’arresto di Salvatore Riina con quel celebre blitz stradale. Ma se l’avessero seguito sino al covo in via Tranchina 22, forse sarebbe stato possibile arrestare il gotha mafioso. Eppure, si agì diversamente. Ci fu dolo o colpa, a suo avviso?
«Lascio al lettore l’analisi e il commento dei fatti accaduti. Non emetto sentenze, non voglio condannare nessuno. Vorrei che il lettore ragionasse dopo aver letto le mie pagine, traendo le sue conclusioni in modo autonomo».

Il suo racconto prosegue, rivelando anche la doppia paternità dei fratelli Graviano, avvenuta quando erano già dietro le sbarre. Com’è stato possibile?
«Stragisti è il dietro le quinte dei trent’anni che ci separano dagli attentati mafiosi. Oltre via Tranchina 22 e tanti altri fatti inediti, rivelo che questi uomini, Giuseppe e Filippo Graviano - che sono stati capaci di piazzare centinaia di chili di tritolo in un’autostrada e nel centro di Palermo, Firenze, Roma e Milano - nonostante il carcere al 41bis, sono diventati anche papà mettendo incinta le loro compagne. Ebbene, com’è stato possibile se il loro regime carcerario avrebbe dovuto impedirlo? I boss mafiosi possono davvero arrivare a tutto? Sono domande dolorose che dobbiamo necessariamente affrontare e sulle quali dobbiamo riflettere, da cittadini dello Stato italiano».

Nel libro lei chiede che l’ergastolo ostativo non venga abolito. Perché?
«Il magistrato Giovanni Falcone voleva premiare i collaboratori di giustizia, coloro che avevano tradito Cosa Nostra, un gesto necessario per combattere l’organizzazione mafiosa e scardinarla dal suo interno. Diversamente, chi sceglie di non pentirsi, non può ottenere gli stessi benefici, fra cui la scarcerazione preventiva, perché si tradirebbe l’eredità di Falcone, dando un pessimo segnale a tutti. Noi non possiamo lasciare che i boss vincano».

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