Si comincia in una discoteca, ma si continua ovunque. Basta un nulla (una luce che cambia, un microfono che passa di mano in mano, un tono di voce che si amplifica oppure si spezza, si fa monotono o racconta l’ovvio spacciato per grande verità, l’uso del telefonino per riprendere e proiettare, il salire e scendere in platea) a portarci nei tanti (o piuttosto pochi) luoghi della nostra quotidianità. Quelli infestati dalla pandemia (se volete, il covid di ieri-oggi o la guerra, sempre in corso da qualche parte, ma che diventa più impressionante se si avvicina ai nostri confini), oppure forse dall’uomo come è diventato: conforme per sciatteria oppure contrario per irragionevole principio, pronto alle fazioni senza badare all’essenza delle questioni, vittima (in)consapevole dei talk show televisivi, dove lo spettacolo annulla anche il banale buon senso di una decente informazione.
È così che un famoso racconto si è trasformato in teatro nello spettacolo “Liberamente ispirato a La maschera della morte rossa di E. A. Poe”, allestito in prima nazionale dalla compagnia messinese Nutrimenti Terrestri nel teatro Menotti di Milano per la rassegna “Contemporanea Ventidue”. La cosa interessante è proprio questa: la sottigliezza dei particolari della messinscena che dicono non meno delle parole talvolta gridate, dei gesti e dei movimenti talora scomposti, quasi a realizzare visivamente e sonoramente il contrasto tra ciò che l’uomo è e ciò che invece è diventato.
È una rivendicazione di intelligenza, una denuncia-desiderio di riappropriazione della ragione e dell’anima. È quello che proponeva già Poe nel suo racconto (scritto nel 1842) in cui il principe Prospero si rinchiudeva con la sua corte in uno splendido palazzo, per ballare e gozzovigliare mentre fuori, nel regno (ma chi se ne frega?) divampava un’epidemia. Simone Corso, autore e regista (messinese di Patti), lo ha fatto diventare un apologo intelligente e per niente accomodante, con tutti gli accorgimenti già descritti, e ponendo Prospero (ben interpretato, in modo impetuoso, da Carmelo Crisafulli, messinese di Milazzo) in interazione con una cameriera (Giuditta Pascucci) di cui s’innamora e che è, come dire, una Cenerentola contemporanea, dotata di pericolosissima coscienza critica, e con l’insinuante speziale di corte (Claudio Pellegrini), pronto a sacrificare un bambino pur di ottenere un vaccino-metafora.
Le tragedie si compiono (ricordiamo l’apporto di Jovana Malinarić come dramaturg), ma Corso non si allinea con nessuno, non gli interessa essere pro o contro le singole questioni, ripropone l’uso della mente e dei sentimenti, che non siano al servizio del principe di turno. Ovvero il primo vaccino di cui avremmo bisogno. Alla fine «Zitti e buoni» dei Maneskin risuona (e, onestamente, lo è) come un manifesto d’intenti: la ricerca della libertà dagli schemi.
Un’ultima nota: sia Corso sia Crisafulli facevano parte dei ragazzi della Laudamo di Messina, nel lungo laboratorio della stagione 2014-15. Da lì sono partiti per la loro già collaudata carriera. Chi vuol cominciare oggi, non può più farlo, dato che l’Ente Teatro messinese ha chiuso la Sala Laudamo alla prosa senza sostituirla con nulla. «Siamo fuori di testa, ma diversi da loro».
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