Lunedì 23 Dicembre 2024

Genio e tormento: "Nel furor delle tempeste" di Bellini con il messinese Luigi La Rosa

Genio e inquietudine, bellezza e desiderio di infinito, gloria e dolore della mancanza sempre in agguato, e un’unica grande passione, la musica, nella breve parabola esistenziale di Vincenzo Bellini, nato a Catania il 3 novembre 1801 e morto a Puteaux, sobborgo parigino, il 23 settembre 1835. Tra moira e tyche, tra destino e caso, la vita da eroe romantico del Maestro del bel canto, prodigioso sin da bambino, con la musica nel patrimonio genetico famigliare (padre e nonno musicisti), entra di diritto nelle pagine di “Nel furor delle tempeste” (Piemme), secondo romanzo dello scrittore messinese Luigi La Rosa, dopo l’apprezzatissimo “L’uomo senza inverno”, biografia romanzata del pittore Gustave Caillebotte. Il romanzo, il cui titolo è tratto da una celebre aria di “Il pirata”, melodramma di Vincenzo Bellini su testo di Felice Romani, è il frutto di un percorso sinuoso nella storia narrativa di La Rosa che ha ascoltato il richiamo della musica, frequentata come studente di pianoforte e composizione. Sicuramente un classico irrequieto, come tutti i romantici, il suo Bellini, che accompagniamo, tra documento e finzione, tra luci e ombre, nel suo viaggio verso la gloria e verso la morte. Napoli, Milano, Londra, Parigi, i suoi amori, spesso infelici, a cominciare da quello per Maddalena Fumaroli, che non poteva essere data in sposa a un «suonatore di cembalo», le amicizie, da quella costante del calabrese Francesco Florimo, bibliotecario del conservatorio di Napoli e tra i primi biografi di Bellini, al legame con la principessa Cristina di Belgiojoso, e l‘esordio della “Norma” sul palcoscenico della Scala, il culmine creativo della musica di Bellini. Tante donne nelle opere di Bellini e nel romanzo, muse libere e appassionate, donne fatali, dame e nobildonne, protagoniste di salotti letterari e musicali, che tanto hanno fatto per l’emancipazione femminile in quel tempestoso trentennio dell’Ottocento. Dopo Caillebotte, ora un genio, totus noster, della musica. Come mai? «In realtà l’idea di raccontare l’esistenza tormentata e geniale di Vincenzo Bellini precede di gran lunga l’intenzione di scrivere di Gustave Caillebotte. Risale addirittura a quindici anni addietro e affonda nella mia passione per la musica, che ho coltivato a lungo come studente di pianoforte e composizione. Poi, a un certo punto, la letteratura ha avuto il sopravvento. Ma già allora la vita, e di sicuro la musica sublime, di Bellini erano nei miei pensieri». Una vita che è già un romanzo tra genio, passioni e inquietudini. Che idea ti sei fatto del Maestro? «Credo che poche vite siano state romanticamente suggestive e complesse quanto quella del compositore catanese. Bellini racchiude nei pochi anni della sua precoce storia umana passioni, amori, apici di gloria e abissi di fallimento, e ancora solitudine, malinconia, strappo delle radici, aspirazione a una forma di normalità che l’arte gli negò sempre. Potremmo dire che Bellini incarna l’archetipo del moderno, insoddisfatto artista novecentesco». Salotti, mondanità, illusioni, intrighi: poteva un genio essere attratto da quel che spesso si rivelava una trappola? «Vivere di musica, di teatro, di arte comportava, inevitabilmente, il rischio di compromettersi e precipitare in orribili trame di pettegolezzo e inganno. Bellini attraversa una società aristocratica mondana, viziata, per taluni versi spregiudicata, portandone tutte le stimmate. Tuttavia, è toccante la maniera con la quale ha difeso la propria arte e con essa la propria integrità morale, senza mai piegarsi a compromessi e tradimenti, anche a costo di andare contro il proprio interesse personale. I fischi che ricevette la prima di “Norma” a Milano costituiscono l’esempio forse più eclatante». La storia, i conflitti di quell’importante trentennio dell’800 rimangono però lontani, sfumati. Come per Caillebotte hai voluto raccontare soprattutto una vita speciale? «Non saprei. In verità, quando narri una biografia, inevitabilmente finiscono per entrare in gioco tutto quegli aspetti che le fanno da contorno e nutrimento. Raccontare è sempre far quadrare, in una specie di cerchio magico, la Storia, la grande Storia, con la piccola storia di uomini e donne che lottano per affermarsi, per emergere. Bellini e Caillebotte sono pertanto anche il riflesso del tempo che vivono e delle sue laceranti contraddizioni». Tra i personaggi femminili molto interessante è Cristina di Belgiojoso. Quale fu il rapporto della principessa con Bellini? «Cristina è una donna libera, impegnata nel giornalismo, nella politica, una scrittrice, una rivoluzionaria e insieme un’esoterista, una figura veramente interessante. Fu grande amica di Vincenzo Bellini e in qualche modo, come si evince anche nel romanzo, rappresentò un sostegno importante soprattutto negli ultimi difficili anni di Parigi. Ho cercato di restituirle fedeltà storica e carattere. Alcuni lettori mi dicono che sia una delle figure più appassionanti del libro». E proprio la presenza di tanti personaggi femminili dimostra il tuo interesse per la questione femminile. Ecco, un personaggio femminile potrebbe essere protagonista del tuo prossimo romanzo… «Hai sfiorato una questione importante. Sì, le figure femminili sono sempre centrali nelle mie pagine e conducono il lettore verso una finale presa di coscienza evolutiva. Forse, proprio come nella vita. Le donne aggiungono sensibilità, fascino, eleganza ma soprattutto forza al quotidiano. Secondo me, sono sempre state le donne a fare la storia, malgrado i bavagli del maschilismo e le imposizioni pesanti dei dettami patriarcali. Nello scrivere mi piace restituire alle donne centralità e importanza. Non è un caso che qualcuno abbia definito i miei dei romanzi femministi. Lo sono e tale giudizio mi onora. In effetti, è già da un po’ di tempo che ho in mente di dedicare un libro a una potente figura femminile».

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