Non basta che la scuola sia quello scheletro in macerie, annerita dal fumo. Non basta che siano bruciati i banchi, le lavagne, la palestra, i libri. Non basta che l’anno scolastico, in Ucraina, per milioni di ragazzi e bambini sia terminato più di cento giorni fa, così come ogni parvenza di vita civile. Valerie e gli altri sono tornati lì, negli abiti che avrebbero indossato se fosse stato un giorno, speciale, di festa, e non un giorno, tragico, di guerra. Circolano ormai ovunque la foto – mozzafiato, come sempre quando vanno in scena contrasti estremi (sì, proprio quelli che le riviste di moda patinate cercano a bella posta) – di Valerie in abito rosso e il video dei ragazzi che, eleganti e un poco rigidi per l’emozione, ballano una specie di valzer figurato. Sono tutti davanti alla stessa cosa: le macerie della loro vita di prima. Le macerie del futuro dell’Ucraina, nelle intenzioni dell’aggressore. E invece Valerie e gli altri non ci stanno, hanno una cosa da opporre alla distruzione, alla vertigine, alla cancellazione: se stessi. Ovvero il futuro dell’Ucraina.
Sono davanti a quella che era la scuola di Kharkiv, la scuola dove entravano ogni giorno, e magari speravano che finisse presto, che arrivasse il ballo di fine anno e cominciasse l’estate. Invece oggi sono lì, in quella foto (l’ha resa pubblica e diffusa su Facebook la zia Anna Episheva, che vive a Toronto, in Canada, e conclude il suo messaggio con queste parole: «Grazie, mia cara Valerie, per essere forte e coraggiosa, sono così orgogliosa di te e ti voglio tanto bene»), in quel video, dove si vedono i soldati sullo sfondo, e dalla parte opposta i genitori che riprendono coi telefonini, in un impasto assurdo di tragedia e normalità. Non hanno molto altro da opporre all’orrore, e allora continuano a fare così, come abbiamo visto nei post dai rifugi, dai nascondigli, dai luoghi dell’esilio, dai luoghi distrutti: riaffermano le ragioni della vita. Che a volte è un abito di chiffon rosso su un cumulo di macerie bruciate.
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