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Dietro lo schermo, l’uomo. Parla l’infettivologo Massimo Galli

È stato uno dei volti più noti durante la pandemia, e ora può finalmente parlare anche d’altro: la vita, la medicina, le idee

«Questo libro è nato dalla fiducia, dell’editrice Vallecchi verso questo progetto, e del professore Galli verso di me». Così parla del suo primo “bambino di carta” Lorella Bertoglio, giornalista scientifica che cura da molti anni programmi televisivi di salute (ha intervistato grandi specialisti della medicina, italiani e stranieri) ed è coautrice con l’infettivologo Massimo Galli di “Gallipedia. Voglio dire…” (Vallecchi), una densa conversazione che ci consegna l’uomo e lo scienziato con l’intelligenza e l’ironia che lo connotano.

Un racconto tra chi chiede e chi risponde (ogni batteria di domande e risposte è preceduta da “assunti paremiologici” di Galli), «scritto, confrontato, riscritto, asciugato».
Non è un libro-enciclopedia sulla Covid19, il suo obiettivo – dicono all’unisono gli autori – «era quello di raccontare in modo chiaro e scorrevole alla madre della Bertoglio, entusiasta fan del professore». Gli anni di formazione, famiglia tradizionale, padre medico e madre casalinga, l’accudimento da parte di varie zie nubili, il liceo classico, la militanza nel Movimento Studentesco, la scelta professionale di occuparsi di malattie infettive, la battaglia durata una vita contro l’Hiv-Aids, il rapporto stretto con i pazienti, le sue missioni in Africa, il volontariato nei progetti scuola, le salde amicizie tra le quali quella con Gino Strada, gli interessi, come quello forte per la Storia, la passione per le collezioni (tra cui le cravatte), gli affetti famigliari, la pandemia e il suo travaglio, e qualche frecciata verso «gli irriducibili della futilità» e verso la «stupidità organizzata»: divulgativo e colto al tempo stesso, questo libro restituisce ordine e misura alla sovraesposizione mediatica.

Professor Galli, come è nato questo libro-conversazione in cui lei si racconta, con pudore ma apertamente?
«Nasce da un’idea e dalla forte volontà di Lorella Bertoglio, premesso che ci si conosce per motivi lavorativi dagli anni 80 e perciò ritenevo di potermi fidare. Ho rifiutato proposte di instant book né volevo un pamphlet polemico. Della Covid avrei parlato dopo, a bocce ferme. E invece dovevo raccontare l’uomo dietro l’immagine piuttosto severa diffusa dai mass media, e dunque c’era la necessità di parlare in parte anche dei fatti miei, cosa per la quale ho avuto un’iniziale ritrosia. Ma era importante che fosse comprensibile alla mamma di Lorella...».

Lei, professore, è stato in prima linea nella lotta all’Aids. Nonostante i notevoli risultati, quali errori si sarebbero potuti evitare? E perché non c’è un vaccino?
«Non c’è perché è quasi impossibile riuscire a trovare un vaccino che protegga contro i sottotipi dell’Hiv. E nonostante se ne stia parlando proprio in questi giorni, se arriverà non sarà tanto presto. Dal primo annuncio arrivato dall’America nel 1981, gran parte del mondo scientifico in Europa rimase indifferente a questa nuova “scandalosa” malattia. Poi, ricordo gli anni 90, tremendi, quando si diffuse, come tutte le malattie infettive, in Europa e in Italia. La sifilide che tanto aveva colpito cultura e fantasia, poi debellata, non ci aveva insegnato nulla: con l’Aids abbiamo avuto lo stesso atteggiamento moralistico stigmatizzante nei confronti dei malati. Errori da evitare: considerare i malati come colpevoli e non cadere in facili ottimismi. Benché nel ’96 la cosiddetta triplice terapia sia stata una svolta con la possibilità di bloccare la replicazione virale e la progressione della malattia, manca un vaccino preventivo o una terapia che consentano di eradicare completamente il virus. Il problema dell’Hiv-Aids non è stato risolto, ma solo accantonato, anzi si osserva un calo di attenzione sia da parte delle nuove generazioni, sia della politica».

A proposito delle oltre 250 malattie zoonotiche, è chiaro che tra i danni apportati dall’uomo all’habitat, le alterazioni climatiche e la diffusione dei virus, dobbiamo aspettarcene altre…
«Lo scrigno di Pandora delle malattie infettive è ancora quasi pieno. Nella mia vita mi sono occupato sempre di infezioni, dalle epatiti alla SARS, dalle meningiti alle malattie emergenti, dovute alle infezioni da batteri multi-resistenti agli antibiotici, presenti in uomini e animali. Ora c’è questo “vaiolo delle scimmie”, detto così perché osservato per la prima volta in laboratorio su una scimmia, ma in realtà portato da un grosso ratto, il Cricetomys gambiano».

E dunque, a cominciare dalla vaccinazione antinfluenzale, bisogna continuare con le vaccinazioni. Ma perché sono difficili le battaglie per le vaccinazioni?
«Il pregiudizio nei confronti delle vaccinazioni nasce con le vaccinazioni stesse. Nella storia delle vaccinazioni, dalla campagna antivaccinale nell’Inghilterra vittoriana all’uso spregiudicato delle procedure vaccinali di Luigi Sacco durante il regno italico napoleonico, a episodi di morti per vaccini sotto il fascismo, la diffidenza verso i vaccini è sopravvissuta alle generazioni. Se si vaccinano i bambini, bisogna vaccinare gli adulti. Negli anni della mia presidenza e vicepresidenza al SIMIT mi sono battuto molto a favore delle vaccinazioni nell’adulto».

La peggiore cosa, lei dice, è la stupidità organizzata. Quanto, questo assunto “manzoniano” ha procurato danni nella pandemia da Covid19?
«Di esempi di stupidità ne abbiamo avuti tanti, anche davanti all’evidenza. Con il rifiuto di interventi organizzati a fronte dell’incapacità di organizzare dopo mesi di tagli alla medicina del territorio e agli ospedali e piani di prevenzione che finiscono nel dimenticatoio».

La vita le ha insegnato a vaccinarsi contro gli eccessi di ottimismo. Quali sono state le lezioni più importanti?
«La prima lezione fu proprio quando fu isolato il virus dell’HIV nei laboratori americani di Robert Gallo, cosa che fece credere di poter ottenere il vaccino. E quando, tra il 15 e il 20 febbraio del 2020, gli sporadici casi in Italia di Covid19 ci fecero credere che fosse come la Sars del 2003, la nostra pietra di paragone, i cui morti in Italia furono quattro o cinque, tutti ci illudemmo. Nutrivamo speranze con il nemico in casa, e poi non ci si aspettava che il sistema a livello territoriale non fosse organizzato prima. Perciò preferisco essere ottimista con cautela».

Pur essendo già noto come studioso, come gestisce oggi la sua popolarità?
«Convivo con le attestazioni di stima anche se mi sento alquanto imbarazzato per i selfie che mi chiedono. E quando passeggio per il quartiere di Milano in cui vivo da sempre i saluti ripetuti mi impongono qualche sorriso in più di quanto sia solito farne. Di insulti ne ho ricevuti pochissimi».

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