Domande e contraddizioni. Una tragedia scura e inquieta. Ma la complessità di Euripide non si risolve ed è proprio questo forse uno degli aspetti che attrae maggiormente in Ifigenia in Tauride, nella traduzione di Giorgio Ieranò, al debutto domani al Teatro Greco di Siracusa per la regia di Jacopo Gassmann. La terza tragedia in cartellone quest’anno dopo Agamennone di Eschilo ed Edipo Re di Sofocle.
Come si risolve la complessità di questa tragedia di Euripide, il più sfuggente, se così vogliamo dire, dei grandi tragici?
«In realtà la complessità di Euripide non si risolve: si risolve in ulteriori domande che secondo me è proprio il caso del bel teatro. Il vero teatro non deve essere un teatro dimostrativo, deve essere un teatro che in qualche modo ci rimanda a casa consentendoci di continuare a ragionarci sopra. Euripide con questo testo lo fa straordinariamente. In una maniera, che ci fa quasi girare la testa, nel senso che è veramente un testo di una densità e di una problematicità abissale. Pieno di paradossi, di contraddizioni che nasce in un momento di grande crisi culturale. Era l'Atene dei sofisti che non facevano altro che mettere in crisi la realtà. Questa è una tragedia della percezione. Ifigenia e Oreste all'inizio dello spettacolo vivono nella dispercezione. Lei non sa se è viva o morta. Lui giunge in questo luogo, terra di nessuno, apparentemente mandato quasi per un capriccio, quasi per un dispetto. Sembra per un lancio di dadi di Apollo. Siamo in un luogo che è chiaramente una grande allegoria, anche della nostra psiche. È un testo che mette in dubbio tantissime cose e lo fa nel V secolo. Deve citare le divinità, ma mette in dubbio una serie di grandi apparati come il mito. In questo testo le divinità stanno zitte».
Ifigenia e Oreste sono due casi clinici?
«È un testo che ho pensato molto anche in chiave psicanalitica. Lei è scissa profondamente, è una dicotomia costante. Lui è al limite della psicosi. Queste Erinni che lo inseguono sono il trauma di aver visto troppo sangue e di aver ucciso sua madre. È un testo anche molto problematico, per quello che Euripide fa con la tradizione. Euripide gioca con gli spettatori del tempo e anche con noi, mettendo dentro anche un rebus culturale. Fa un'operazione composita, prende varianti del mito e le mette insieme e quindi gioca con lo sguardo critico dello spettatore o con la memoria culturale dello spettatore. Ci sono momenti in cui i personaggi sfondano l'illusione scenica. Sono consapevoli di essere dei personaggi scritti, di essere dei miti, dei riti. Per questo io mi consento di giocare a questo gioco. È un gioco che parte da Euripide e arriva fino a Pirandello. Arriva ai giorni nostri: il viaggio di questa donna, profondamente intelligente e problematica, che all'inizio dello spettacolo non riesce a decodificare la realtà. Compie rituali che si rivelano beffardi, compie un rituale in nome di suo fratello che lei pensa essere morto ma non lo è. Siamo in un luogo dove il tutto ci trae in inganno».
Una scenografia che ci aiuta nelle proiezioni a comprendere il testo e questo viaggio.
«Sì perché è un viaggio dell'intelligenza, un viaggio della ragione. Ifigenia attraverso la fantasia e attraverso degli stratagemmi falsi si inventa un rituale che non esiste. Questo spettacolo che inizialmente si presenta di fronte a questo tempio che sembra una sorta di muro bianco impenetrabile. Il luogo stesso inizierà a mandare segni, che saranno segni della storia, letterari, pittorici, scultorei, musicali. Mentre Ifigenia racconta vedremo entrare delle teche che rimandano a un museo del XXI secolo che però portano dentro disegni antichi. Piano piano questi segni si depositano sul palco: arriveranno oggetti che poco c'entrano con l'epoca del testo stesso. Euripide chiede di compiere una decostruzione di questi grandi apparati, dei miti. Questo viaggio, un viaggio di liberazione psicologica, emotiva ma anche, come dire, intellettuale, filosofica, lo deve compiere per salvarsi. L'intreccio chiede a lei di trovare delle soluzioni. Diventerà un personaggio consapevole di essere personaggio, consapevole di essere scritto: questo tempio evocherà per lei il manoscritto, il primo originale di Ifigenia in Tauride, e lei si accorgerà che sta recitando la pagina del testo greco che compare. Beh, se sono personaggio scritto, si dirà, allora posso anche scrivermi. E allora diventa autrice stessa del testo. Lei diventa regista del testo».
Oggi il testo si può attualizzare?
«È una tragedia di figli. Sono gli ultimi di una dinastia. Orfani in un mondo senza più modelli, senza più padri. Si parla tanto oggi dell'evaporazione del padre. Quindi all'inizio sono due nomadi che vagano sotto un cielo che non ha risposte. Le divinità non ci danno risposte, i miti sono parole, la parola ci trae in inganno. Euripide in questo testo usa verbi che hanno sempre due possibilità di significato. Sono nomadi, e anche esuli. Questi ragazzi vengono mandati verso un destino, verso l'orizzonte che è un altro punto di domanda. Non sappiamo che fine faranno. I figli di oggi sono da una parte più liberi, perché non ci sono più le autorità, i grandi apparati ideologici del Novecento. Ma sono più spaesati. E quindi ci sono giovani che devono diventare padri di se stessi. Alcuni ce la fanno, gli altri si perdono».
È la prima volta al teatro greco...
«Stiamo facendo tutto il possibile per cercare di rendere questo testo il più godibile e rigoroso possibile. Siamo in uno dei più bei teatri al mondo, in cui si respira non solo la storia, ma la storia di tutti quelli che l'hanno calcato. Io ci venivo da piccolo, come tanti studenti. Ero un grande amante del greco antico. Poi in famiglia c'era un certo rispetto per il greco e i grandi tragediografi. Non so se sono pronto, questo sarà il palco a dirlo».
Nel cast Anna Della Rossa (Ifigenia), Ivan Alovisio (Oreste), Massimo Nicolini (Pilade), Alessio Esposito (Bovaro), Stefano Santospago (Toante), Rosario Tedesco (Messaggero), Anna Charlotte Barbera, Luisa Borini, Gloria Carovana, Marta Cortellazzo Wiel, Roberta Crivelli, Caterina Filograno, Leda Kreider, Giulia Mazzarino, Valentina Spaletta Tavella e Daniela Vitale (Coro di schiave greche). Le scene sono di Gregorio Zurla, visual designer sono Luca Brinchi e Daniele Spanò, i costumi di Gianluca Sbicca, le musiche di G.U.P. Alcaro, il disegno luci di Gianni Staropoli, movimento e coreografie di Marco Angelilli, regista assistente è Mario Scandale, maestro del coro è Bruno De Franceschi.
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