Ci sono artisti la cui grandezza è tale che ogni parola appare insufficiente per chiarirne i confini, perché i confini non ci sono. Per scrivere di Peter Brook è meglio mettere prima in fila alcune delle sue tantissime frasi. Ne cito due. Una è lunga: «Non ho mai creduto in un’unica verità, né in quella mia né in quella degli altri; sono convinto che tutte le scuole, tutte le teorie possono essere utili in un dato luogo e in una data epoca; ma ho scoperto che è possibile vivere soltanto se si ha un’ardente e assoluta identificazione con un punto di vista. A mano a mano che il tempo passa, che noi cambiamo, che il mondo cambia, tuttavia, gli obiettivi si modificano e il punto di vista muta. Rivedendo i saggi scritti (…) mi colpisce ciò che in essi rimane costante. Se vogliamo che un punto di vista sia di un qualche aiuto, bisogna dedicarvisi con tutte le nostre forze, difenderlo fino alla morte. Nello stesso tempo, però, una voce interiore sussurra: “Non prenderti troppo sul serio. Tienti forte e lasciati andare con dolcezza”». L’altra è breve: «Un gatto, un bambino e un saggio possono tutti giocare con un cerchio, ognuno alla sua maniera». La prima ci racconta la sua costante e coerente ricerca, testimoniata, per esempio, dal passaggio da regista scespiriano a seguace del “teatro della crudeltà”, riuscendo a essere tra i pochi a dare concretezza al teatro-non teatro profetizzato da Artaud. Ma quando nel 1989 venne a Taormina per ritirare il Premio Europainsieme con Jerzy Grotowski (il dialogo pubblico tra i due rimane un evento storico) aveva trovato la strada d’un teatro essenziale, senza vecchi metodi ed effetti, che lui definiva di un “teatro mortale”. La seconda ci fa capire come il teatro è per tutti e dovunque, purché ci sia l’innocenza sia dello spettatore sia dell’attore, concetto che troviamo perfino in uno spettacolo complesso come il famoso “Marat-Sade”, messo in scena a Londra, prima del trasferimento a Parigi, dove aveva poi trovato il suo posto di geniale “irregolare”. Ecco, quindi, che vedendo a Palermo nel 1986 la sua “Carmen” potevo raccontare come il regista ripartisse da zero tornando alla semplicità, a ciò che può essere comunicato allo spettatore in maniera chiara e immediata; rivolgendo i suoi interessi a testi che sono all’origine di altri testi o di altre storie e che, provenendo da una radice precisa, occidentale o orientale, in realtà hanno dentro temi comuni a civiltà differenti; alla ricerca di un nucleo primigenio che fa parte della nostra naturalità. Da qui la riduzione di epiche, sia occidentali sia orientali, come il famosissimo “Mahabharata”, poi diventato anche film, spettacolo di nove ore presentato al Festival di Avignone nel 1985. Come si può essere essenziali per nove ore, è solo l’esemplificazione della grandezza di questo artista. Arrivò poi alla scena nuda, dove il movimento degli attori diventava fondamentale quanto e più della parola. Nel 2007, il regista portò a Milano “Fragments” di Beckett e tutto era chiaro. Brook – sottolineai – trova attori che appartengono a quella meravigliosa specie che sul passaporto alla voce “nazionalità” ha scritto “teatrale”. Non apolidi, ma cittadini del grande Paese del Teatro. La loro provenienza cosmopolita rende l’idea che il teatro in senso geografico, oltre che culturale, è qualcosa per tutti: lo si crea, lo si porta in giro perché possa essere condiviso e possa raccogliere dagli altri nuovi significati ed emozioni. E ogni movimento, ogni gesto, ogni inflessione verbale sono tutti così perfetti da poter essere definiti “realisti”, ma non nel senso comune di questo aggettivo. Si tratta di un realismo che trascende la realtà. Va oltre perché racconta i sentimenti, il lato oscuro di ciascuno di noi, mette a confronto l’esteriorità con l’interiorità, esprime la mente delusa nelle proprie ricerche e il cuore e la pancia che talvolta si autosterilizzano per resistere alla scoperta del nulla. Per questo il teatro è anche terapia.