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Rifondare l’Europa a partire dal canto. A colloquio con Paolo Rumiz (oggi a Reggio)

Inseguendo quattro moderni argonauti alla ricerca della bellezza perduta

Europa, un universo, un pianeta, e anche un dono del mito, della storia e delle storie. Ma forse è il canto, dono degli dei, a parlarci ancora di Europa, a farla rammemorare di se stessa, del suo perduto nome, un enigma e un mistero purtroppo ignorati. Ed è un “Canto per Europa” (Feltrinelli), quello mitopoietico e coltissimo elevato da Paolo Rumiz, viaggiatore instancabile attraverso i luoghi, le storie, le parole, e che tra mito, viaggio e tragedie dell’attualità, diventa testimonianza, inno e preghiera.

Affinché questa Europa ingabbiata tra due forze, «da un lato l’America dall’altro lo stato-mafia di Putin» – dice lo scrittore – questa Europa costretta dentro la macchina calcolatrice di interessi e poteri, che «sembra camminare rasente ai muri», ritrovi la bellezza perduta, il dialogo con se stessa e con l’alterità. «Il Mar Mediterraneo è un’altra cosa, è uno spazio di incontri e di taverne, è il regno polifonico del periplo. Qui si viaggia in esametri da sempre», recita un passaggio del bellissimo canto di Rumiz, aedo e scriba al tempo stesso, che riecheggia racconti antichi, procedendo da un Proemio e da un inizio in cui “Il mare era in principio” e, dopo un omaggio alla Luna, prosegue attraverso “Capitoli-Libri dell’incontro, della fuga, dell’insonnia, dei naufragati, del nome ritrovato, della stirpe del mare immenso”.

Un libro – che sarà presentato oggi a Reggio alle 18.30 alla libreria AVE-Ubik di corso Garibaldi, con Antonino Romeo – che è pure una provocazione per ritrovare «parole e racconti perduti anche per via di una comunicazione sempre più vuota, volta alla semplificazione e che ha dimenticato la complessità delle infinite esistenze intorno a noi e prima di noi», noi che sappiamo poco di noi stessi e invece dovremmo ricordare la «madre antica, che tutto genera e trae da Europa il seme più fecondo, che vedeva assai più lontano di noi pur sapendo del mondo poche cose, e a noi, analfabeti dell’anima, ha dato l’evidenza del suo mito, per impedirci il naufragio».

Dottor Rumiz, il suo è un canto per Europa. Perché?
«È una riscrittura del mito di Europa, per quella fanciulla, dea, grande madre, mito fondante delle nostre radici. Un canto sì, e infatti il primo capoverso è sempre un endecasillabo, perché erano i versi l’ultimo rifugio degli dei in un mondo devastato. Europa era una principessa fenicia rapita da Zeus che prima le apparve sotto forma di un toro bianco e poi la possedette dopo essersi trasformato in aquila. Io immagino che quattro moderni argonauti che percorrono il Mediterraneo, perché non dimentichiamo che Europa è Mediterraneo, su una barca ultracentenaria, raccolgano una giovane profuga siriana di nome Europa che chiede di fuggire con loro verso ovest. È una migrante come lo fu la stessa principessa fenicia e da quel momento, nella navigazione in questo mare di meraviglie e di naufragi, di pestilenze, di turismo, di tradizioni, di bellezze, di conflitti e di orrori, di emigrazione, rivive in forma mitopoietica, l’epopea stessa di Europa».

L’Europa, imbarbarita e senz’anima, ha dimenticato le sue origini e persino il suo nome. Lei infatti canta Europa, non l’Europa.
«Qualcuno mi ha chiesto come mai il titolo del libro non è “Canto per l’Europa” ma “Canto per Europa”. Perché io canto il nome che abbiamo dimenticato con la sua enorme, millenaria quantità di bellezza. Persi nelle nebbie di Lete, dimentichi di ciò che è stato, di quell’Oriente che s’incontrava con l’Occidente, di una grande storia, continuata attraverso culti religiosi e attraverso lo stesso cristianesimo, ormai identifichiamo “l’Europa” con i palazzo in cui si consumano affari, interessi, s’incontrano potenti e poteri. E invece bisogna che i miti del passato, come i Poeti del passato, come Omero, restino nella fantasia e nella coscienza di tutti».

Come mai, dottor Rumiz, il viaggio del suo libro si conclude in Calabria?
«È una terra fantastica, dove il mito del toro, come è evidente dai toponimi, Taurianova e Gioia Tauro, vive ancora insieme all’energia del mito della Grande Madre. Non dimentichiamo che il culto di Maria è molto più forte al Sud e che tutto il Sud custodisce nella memoria e nei luoghi stessi il mito. Ho presentato il libro a Benevento dove il culto di Iside, arrivato da Oriente attraverso il mare, era ben radicato nell’antichità. Lì ho potuto vedere la scultura di un’Iside che da un lato ha il toro e dall’altro la barca; una mater matuta protettrice di naviganti, di madri, una dea onnipotente, universale. E la Calabria è la terra dei vituli, cioè dei tori, che ha dato nome all’Italia».

Dunque Reggio Calabria, e poi?
«E poi Palmi, perché proprio a Palmi, circa due anni e mezzo fa, affacciandomi dal Tracciolino e dal suo straordinario panorama, tra Calabria, lo stretto di Messina, la costa orientale della Sicilia, l'Etna e l’arcipelago delle Eolie, nello stesso punto in cui si avvistavano i pescispada, ho avuto l’idea di questo viaggio narrativo. E poi il passaggio obbligato di Scilla e Cariddi e la Sicilia, dove sono stato davanti all’Etna, meraviglia della natura in cui ciò che è vulcanico diventa ferace, e la roccia fusa restituisce vita. Da tutto questo e dalla necessità di ritrovare la narrazione di Europa, narrazione anch’essa purtroppo dimenticata, nasce il mio libro».

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