Il giovane che vuol guidare il Carro del Sole, e brucia la Terra. La nostra è una "Generazione Fetonte"?
Si era spinto troppo oltre. Adesso, a guardare da lassù quanto per causa sua avveniva nel mondo era paralizzato dalla paura. Avrebbe dovuto fidarsi del giuramento solenne di Climene e non lasciare l’Etiopia per recarsi alla reggia del padre. Avrebbe dovuto sentirsi appagato dell’abbraccio commosso di Helios e dare ascolto alle parole dolenti, con cui tentava di dissuaderlo da quel progetto impossibile. Helios, il Sole, pronto a promettergli qualunque cosa chiedesse per provargli che era suo padre, rimasto vittima di quel giuramento alla cieca, che non gli era lecito infrangere. «Per un giorno, padre» gli aveva chiesto; «per un solo giorno, lascia che sia io a guidare i cavalli; se davvero sono tuo figlio, permettimi di solcare al tuo posto i sentieri del cielo». Lo aveva ammirato da sempre quel cocchio alato, che, attraversando l’etere profondo portava luce da un polo all’altro del mondo. Per anni aveva sognato di stringere fra le mani le redini di quei quattro cavalli, di condurli in volo agli estremi confini del suo desiderio, di indossare la corona splendente del loro auriga. Così, quando l’Aurora aveva lasciatogli atri profumati di rose del suo palazzo, per annunciare la luce, si era sentito padrone del mondo, non capendo che non può governare sul mondo chi non sa averne cura. Aveva pensato che bastasse essere dello stesso sangue del padre, chiamarsi Fetonte, «lo splendente», per condividere le prerogative del Sole compiere il suo luminoso cammino. E quando, su ordine del Sole, le Ore avevano aggiogato i cavalli e sospinto il carro fino alla soglia che separale vie della notte da quelle del giorno, finalmente il momento era giunto. Un brivido di felicità gli aveva percorso la schiena, al pensiero di lanciare in volo quei possenti destrieri. Eppure, suo padre non aveva cessato di metterlo in guardia che ciò che chiedeva era sproporzionato persino per le aspirazioni di un dio. Neanche il signore dell’Olimpo, il grande Zeus, avrebbe potuto guidare quel carro; solo a lui, il Sole, era stato concesso. Perché – Fetonte doveva capirlo – non era un compito qualunque portare al mondo la luce, e con la luce il calore e la vita. Il giorno in cui il sovrano degli dèi aveva assegnato a lui, il Sole, di compiere senza tregua quel luminoso travaglio, era stato chiaro: bisognava avere cura, rispettare la terra. Non allontanarsene più del dovuto, perché gli uomini non perissero a causa del gran freddo, e non abbassarsi troppo verso di lei, per non ucciderli con un eccessivo calore. Il Sole, che compiva quel percorso da sempre, conosceva il punto prodigioso e instabile in cui l’equilibrio si compie, sapeva la perfetta misura. Ma lui, Fetonte, senza avere alcuna esperienza in materia, come pretendeva di avventurarsi lungo il crinale sottile che sta tra la vita e la morte, guidando i cavalli impetuosi? Avrebbe dovuto desistere. «Avrei dovuto desistere»: anche il giovane, adesso, lo sa; gli è bastato toccare le redini per sentire con un sussulto del cuore la forza dei destrieri dai piedi di fuoco. Ma ormai è troppo tardi. A nulla vale che il padre, balzato a cavallo dietro di lui, gli suggerisca la strada. Il carro lo trascina vorticosamente per l’etere, l’auriga è in sua balìa. Da lassù, guarda sgomento la Libia farsi deserto, gli Etiopi mutare colore, le nevi perenni del Rodope per la prima volta dissolversi. Sotto i suoi occhi le fonti si prosciugano, privando le ninfe delle loro cristalline dimore. Bruciano gli alberi, bruciano i fianchi boschivi dei monti; il fuoco si propaga veloce tra gli arbusti secchi, riducendoli in cenere. Evaporano le acque dei fiumi: lo Xanto, l’Alfeo, ma anche il Rodano, il Reno, il Tevere, l’Eridano. I delfini fuggono negli abissi il pelo dell’acqua, dove al loro posto galleggiano corpi morti di foche. È giovane, Fetonte. E i giovani, si sa, sono arditi, impulsivi; vivono nel presente e persino «domani» è per loro un futuro remoto. Per tale giovanile intemperanza, per una folle ambizione che non trova un freno nel pensiero delle conseguenze future, egli rischia di trascinare l’intero cosmo nella catastrofe di una conflagrazione globale. Ma noi, cittadini del 2022, protagonisti attivi o inconsapevoli di una nuova «era della sabbia e del fuoco», non possiamo certo attribuire ai giovani le responsabilità di Fetonte. Noi che viviamo in un mondo in cui gli effetti sempre più vistosi del cambiamento climatico seccano boschi e foreste, offrendo continuamente formidabili micce al propagarsi del fuoco. Un mondo in cui il caldo e le scarse piogge dell’estate appena trascorsa hanno portato all’imposizione di restrizioni idriche, non solo in alcune città italiane, ma anche in ben 79 dei 96 dipartimenti francesi e persino nell’Inghilterra del sud. Un mondo in cui la siccità asciugai grandi fiumi, in una singolare coincidenza con il racconto del mito: dal Tamigi al Po–vittima, quest’estate, della crisi idrica più grave degli ultimi settant’anni; dal Rodano al Reno – su cui si è pensato di fermare il traffico delle chiatte per il livello eccessivamente basso raggiunto dalle sue acque; dalla Loira – all’inizio di agosto attraversabile a piedi, alla Mosa –il cui prosciugamento ha messo a rischio il raffreddamento dei reattori nucleari di Chooz, imponendone la chiusura. Un mondo che vede il surriscaldamento delle acque alterare in modo sempre più profondo gli ecosistemi marini e persino la tavolozza dell’autunno newyorkese messa a rischio dagli effetti del cambiamento climatico sul foliage. In questo mondo, al contrario di quanto avviene nel mito, i giovani hanno piuttosto scelto per sé la parte del Sole, facendo pressione sui governi dei loro Paesi perché prendano a cuore, finalmente, il tema dell’emergenza climatica. Una «Generazione Greta», dunque, come ormai abbiamo imparato a definirla, che si prende cura dell’ambiente in cui vive e si oppone a quella che potremmo battezzare «Generazione Fetonte», composta da uomini che non hanno ancora scelto di rispettare la terra più dei loro profitti, che ancora non sanno o non vogliono affrontare l’emergenza climatica: come rivela, da ultimo, il caso emblematico dell’attuale campagna elettorale italiana, in cui, a parte la berlusconiana, enfatica promessa di un milione di alberi, che ha il patetico sapore di un meme, il tema ambientale resta la cenerentola. E ciò sebbene solo un mese fa cinque scienziati del clima abbiano pubblicato una lettera appello, in cui hanno chiesto «con forza alla politica di considerare la crisi climatica come un problema prioritario da affrontare», sottolineando come la posizione geografica dell’Italia la renda ad essa particolarmente esposta. Narra il mito che, quando Fetonte vagava senza rotta nel cielo sul carro infuocato, la terra implorò Zeus di salvarla e il signore degli dèi la ascoltò, fulminandolo. Oggi quella stessa terra implora noi di fermare la corsa del fuoco prima che sia troppo tardi. Certo, non possiamo farlo con i fulmini, ma non bastano nemmeno le firme sulle petizioni. Facciamolo in primis con le nostre scelte personali ed elettorali. Anna Maria Urso *Professoressa associata di Filologia classica e Drammaturgia classica Università di Messina