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"Tomás Nevinson" e la scelta della strada. Sempre sbagliata

Non capita tutti i giorni d’imbattersi in uno di quei romanzi la cui lettura si affronta come un vero e proprio percorso all’interno di se stessi, percorso che non ci riporterà più a quelli che eravamo al punto di partenza, ma ci condurrà in un territorio da noi stessi ancora inesplorato, un territorio di cui non conoscevamo neppure l’esistenza, là dove la letteratura è capace di disegnare l’esistenza dei personaggi come se fosse la mappa di una geometria sconfinata e non euclidea, quella della nostra vita. L’ultimo romanzo di Javier Marías, scomparso l’11 settembre scorso, s’intitola “Tomás Nevinson” (Einaudi), ed è il seguito di “Berta Isla” (Einaudi, 2017). I due romanzi s’intrecciano in modo così sostanziale da farci immaginare che siano frutto d’un unico gesto creativo, di una sola illuminazione, tale è l’assoluta interdipendenza fra l’uno e l’altro.

Come gemelli frutto dell’immaginazione di Marías questi romanzi si assomigliano così tanto che sarebbe possibile scambiarli fra di loro. Le storie dei protagonisti, Tomás Nevinson e la moglie Berta Isla, sono del resto ricostruite dall’autore con tali accuratezza, precisione e meticolosità, da dare al lettore l’impressione d’essere personaggi rubati alla realtà anziché alla fantasia. La doppia vita del protagonista – quella che aveva logorato e messo duramente alla prova il suo rapporto con la moglie, Berta Isla – in “Tomás Nevinson” complica ulteriormente la vicenda di questo secondo romanzo, corposo sviluppo del precedente.

Tomás è chiamato ancora una volta a servire i servizi segreti britannici e la sua missione è ardua da portare a compimento: «Ho avuto un’educazione all’antica, e non avrei mai creduto che un giorno mi si potesse ordinare di uccidere una donna». In realtà, le donne sospette individuate dall’MI6 sono tre: una di loro potrebbe essere la responsabile di sanguinosi attentati terroristici dell’Ira e dei separatisti baschi dell’Eta (la storia si svolge fra l’ultimo decennio del Novecento e il primo decennio del Duemila). Tocca a Nevinson – inviato dai servizi britannici in Spagna – scoprire quale delle tre va eliminata senza scrupoli e, soprattutto, senza essere prima giudicata da un tribunale.

Tupra, il capo di Nevinson, è un personaggio di derivazione dostoevskiana – spietato ma di una crudeltà lucida e sempre razionale – dà ordini e direttive a Nevinson e con la sua ansia da inquisitore tutto sommato lo affascina e lo disgusta insieme. È lui a guidare il protagonista nella zona off limits per la gente normale in cui non puoi permetterti di dubitare e di vacillare: sei un agente, l’esecutore implacabile dei piani orditi da chi sta più in alto di te. Spiega in modo assai convincente Tupra a Nevinson: «Nella lotta al terrorismo ci sono cose che non si devono fare. Se si fanno, non si devono dire. Se si dicono, si devono negare».

Ma accanto alla vicenda portante del romanzo, quella che riguarda l’indagine clandestina di Nevinson sulle tre presunte terroriste, c’è il rapporto fra marito e moglie – fra Tomás e Berta, protagonisti assoluti del dittico – basato sulla diversità e l’intesa, sulla complicità e l’astio, sulla lontananza voluta e sulla vicinanza soltanto bramata e solo ogni tanto cercata. Del resto, Tomás è una di quelle persone che «imboccano una strada sbagliata e non riescono più a raddrizzarla», mentre gli occhi Berta sono ancora «naturalmente allegri e fiduciosi del futuro, un futuro vago, forse vuoto, limitato a un risveglio ottimista ogni mattina».

“Tomás Nevinson” è il racconto di una discesa nel Maelstrom, un viaggio di sola andata nell’ombra, nella notte di tenebre in cui finisce inevitabilmente chi acquista – per mestiere, potremmo dire – la capacità di decidere (quasi) a proprio piacimento della vita e della morte di ognuno di noi.
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