Quando nel settembre del 2021, intervistando Costanza DiQuattro sul suo romanzo “Giuditta e il monsù”, chiedemmo alla scrittrice se nel suo laboratorio autoriale vi fosse già qualche idea per una nuova storia, ci rispose che no, voleva godersi la sua Giuditta e il suo monsù. E invece, esattamente un anno dopo ecco che dalla cornucopia iblea esce “Arrocco siciliano” (Baldini+Castoldi), che racconta «una storia di fiducia e debolezza, di paura e coraggio», ambientata nella Ibla del primo decennio del Novecento.
Dopo la morte del vecchio farmacista Albanese, da Napoli giunge il giovane Antonio Fusco a prenderne il posto nella bottega da speziale per volontà del defunto. La sua aura di mistero e di fascino, la sua imperturbabile corazza a coprire un’anima tormentata e appassionata che ha vissuto cadute e risalite, sconfitte e conquiste suscitano la diffidenza e insieme la curiosità della comunità, avvezza all’arte del curtigghiu. Una storia bella e amara, come quelle che la DiQuattro sa raccontare, che ci restituisce la bellezza dei luoghi e la complessità della vita quotidiana nella provincia siciliana, con sullo sfondo il forte simbolismo del gioco d’azzardo.
Ma cosa è successo nel laboratorio della scrittrice?
«È successo che fino ad oggi non sono stata io a cercare storie bensì loro a venire a me. La figura di Antonio Fusco è arrivata all’improvviso, mentre facevo la mia solita coda in farmacia (luogo che adoro, da ipocondriaca quale io sono). D’un tratto ho pensato che volevo scrivere le vicende di un farmacista dei primi del ‘900, uno di quei farmacisti che i farmaci li creava, quasi come pozioni magiche. Il resto si è aggiunto dopo. Ogni giorno che passava, in un puzzle immaginario, univo tasselli diversi (il gioco, il vizio, la morte, la follia). Ed ecco che è nato “Arrocco siciliano”».
La sua Ibla si conferma un serbatoio di storie. Anche questa ispirata dagli archivi della sua famiglia?
«Ibla è un luogo magico. Io amo definirla una eterotopia, proprio perché sa essere diversa da qualsiasi altro posto. I suoi colori, le sue stradine impervie, le sue incongruenze e dicotomie la rendono semplicemente magnifica. E questa magnificenza continua a regalarmi infiniti spunti. In verità in questo romanzo gli archivi di famiglia c’entrano ben poco. È più rilevante la memoria storica, i racconti delle sedute di gioco d’azzardo, le proprietà svendute per una mano sbagliata. Questo genere di racconti hanno sicuramente alimentato questo romanzo».
Gli scacchi, di antichissima origine e metafora del “gioco” della vita, oltre che motivo ricorrente nelle arti, in questa storia hanno un ruolo fondamentale. Anche la Sicilia vanta una tradizione scacchistica?
«Gli scacchi in Sicilia hanno avuto un periodo d’oro. Basti pensare che l’attribuzione dell’invenzione dell’arrocco, famosa mossa degli scacchi, che coinvolge il re e una delle due torri, è di un monaco ciarlatano di Militello: Pietro Carrera, vissuto tra la seconda metà del ‘500 e la prima metà del ‘600. Poi credo che la razionalità e l’intelligenza degli scacchi abbiano lasciato spazio alla brutale istintualità dell’azzardo. Così giochi come la zicchinetta o il baccarat hanno preso il sopravvento in una società spesso dissoluta».
Se esiste l’arrocco, non esiste l’arrocco siciliano. Titolo dietro al quale sta il senso profondo del romanzo.
«L’arrocco siciliano è un errore. Uno scacchista vero, soffermandosi sul titolo, inorridirebbe. O si fa l’arrocco o si fa la mossa siciliana. Io, invece, creando una sorta di crasi tra le due mosse ne ho descritta una che c’entra poco con gli scacchi e che in verità attiene al temperamento di molti siciliani».
A proposito di scacchi la bellissima copertina del libro, del Padovanino, immagina una partita tra Venere e Marte. Emblema della storia?
«La bellissima copertina (ma non l’ho scelta io) ha il grande merito di rimandare a moltissimi simbolismi e allegorie. Io rivedo l’eterno conflitto tra il dionisiaco e l’apollineo. La lotta tra il Dio della misura e quello della scompigliatezza. Ebbene, se la copertina la si legge in questo modo, si ha il senso ultimo e più profondo del romanzo».
E comunque sul demone del gioco e soprattutto delle carte, che determinava le sorti della vita e anche della morte di persone e famiglie, si concentra la parte, per così dire, “antropologica” del suo romanzo.
«Il gioco delle carte ha un ruolo fondante in questo romanzo. Ma non solo quello delle carte bensì la volontà di trasformare ogni cosa in gioco, in vertigine, in azzardo».
Torniamo a Ibla del primo Novecento con la sua carica di varia umanità. Sono sempre donne le figure vincenti a dispetto di una condizione storica e sociale di subalternità.
«Io non sono convinta che le donne siano mai state subalterne rispetto agli uomini. La mia Sicilia, e la Sicilia in generale, ha una matrice matriarcale. Una forza unica che è donna in tutte le sue sfaccettature. Le mie donne sono colonne disposte a reggere il peso di uomini immensi ma spesso vittime delle loro debolezze».
Dopo il mondo affascinante della cucina adesso quello della farmacia… Come mai?
«Ahhh!!! Questa è una domanda bellissima. Io ho una passione smodata per le farmacie. Mi regalano un senso di tranquillità e sicurezza. Pensi che ovunque vada la prima domanda è “quale è la farmacia più vicina?”. Già il fatto di saperla a portata di gamba mi rende felice. Una follia, lo so. Come tante».
E per finire, una riflessione sul suo lavoro, sulla lingua che non appesantisce il fluire della narrazione ma le dà naturalezza e profondità storica.
«Sono onorata che lei ritenga la mia scrittura fluida. Credo sia il più bel complimento che una scrittrice possa ricevere. Io penso che il mio modo di scrivere risenta moltissimo del teatro, il mio primo lavoro e una delle mie più grandi passioni. Ritengo che l’abitudine alla musicalità della lingua parlata sulle doghe abbia inesorabilmente segnato il mio stile. E le dirò… Viva Dio!».
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