La moda e le modelle, certo, in una rivoluzione fotografica a lungo intrecciata con la rivoluzione stilistica di Gianni Versace, che per Richard Avedon (1923 – 2004) hanno significato un logico approdo (mai definitivo per uno come lui che ha innovato sino all’ultimo giorno). Ma non solo questo, per quanto nell’immaginario collettivo possa essere predominante. Ci sono anche, e direi soprattutto, i ritratti: vere immagini parlanti in cui non prevale né l’intenzione di chi fotografa né quella del soggetto. C’è una sorta di strana e sincera verità, che va al di là della straordinarietà dei dettagli di ogni singolo viso: è proprio un oltre che fa di ogni volto una rivelazione, di ogni sguardo un lungo discorso, di ogni ruga un panorama interiore. Insomma, ci appare una sorta di radiografia, non fatta di ossa, ma di pensieri e di sensazioni. Un risultato incredibile. Così credo che vada vista la mostra “Richard Avedon: Relationships” che, nel Palazzo Reale di Milano fino al 29 gennaio, ripercorre gli oltre sessant’anni di carriera del fotografo americano lungo un percorso di 106 immagini prevenienti dal Center for Creative Photography di Tucson e dalla Richard Avedon Foundation. Le due istituzioni statunitensi hanno collaborato alla mostra che è stata promossa dal Comune di Milano-Cultura e organizzata da Palazzo Reale e Skira Editore, con Versace come main partner. Ci sono due dichiarazioni di Avedon che possono aiutarci a capire i suoi ritratti. La prima è solo apparentemente contraria al risultato mai scontato dei suoi volti: «Le mie fotografie – disse – non scendono sotto la superficie. Non scendono sotto nulla. Piuttosto, leggono la superficie. Ho molta fiducia nelle superfici. Una buona superficie è piena di indizi». E ha ragione: non sono le foto a scendere, ma le emozioni – anche negative, come appare nei ritratti di alcuni politici – a risalire. Quella superficie carica di indizi da cui parte Avedon (lui che da giovane in guerra faceva le foto per le carte d’identità) diventa sempre più piena rispetto a quando il soggetto si è seduto davanti alla macchina fotografica, non sapendo che sarebbe stato indifeso. Del resto, ecco la seconda dichiarazione, Avedon sapeva come disarmare le sue “vittime”: «Preferisco sempre lavorare in studio. Così i soggetti vengono isolati dal proprio contesto e diventano, in un certo senso… simboli di loro stessi». Ecco, quindi, come accadeva che la verità – non necessariamente oggettiva – si faceva strada in quei volti inquadrati sempre in primo piano e su sfondi bianchi o al massimo grigi (sarà un caso, ma anche il realista Caravaggio non dipingeva sfondi), che non distraevano dai visi, anzi li esaltavano. E non si trattava solo di personaggi famosi, perché Avedon, il fotografo dei modelli di Versace e delle copertine di “Vogue”, è stato autore anche di grandi campagne sociali, di cui forse la mostra avrebbe potuto dare qualche immagine in più. Esemplari sono i ritratti del regista John Ford, il grande autore di western, fotografato a 78 anni con la sua famosa benda sull’occhio perduto in guerra, che sembra poter esplodere; quello di William Casby, l’uomo che era nato schiavo, in cui la particolarissima simmetria tra mento e orecchie, tutti di misura XXL, dà conto di sofferenze e rivincite; dello scrittore Truman Capote che si ritrova a esporre la sua parte efebica; dei Beatles (Avedon riesce a far sembrare bello anche Ringo Starr), che appaiono con uno sguardo da lungimiranti profeti. Ma altrettanto si potrebbe dire di ogni altro ritratto in mostra, a partire da quello così particolarmente ibrido – e famosissimo – di Nastassja Kinski nuda avvolta da un pitone, immagine evocatrice di paradisi terrestri perduti. A fare da contraltare a questa ieraticità immobile riservata ai personaggi, c’è la capacità inversa di aver fatto diventare mobile il mondo delle modelle «trasformandole – come dice la curatrice Rebecca Senf – da soggetti statici ad attrici protagoniste dei set, mostrando anche il loro lato umano». Significativa e iconica immagine di questa trasformazione è «Dovima con gli elefanti», foto di cult, che – come diceva lui stesso, colpì Gianni Versace bambino quando la vide su “Vogue” nell’atelier della mamma a Reggio Calabria. «Già allora – raccontava a questo proposito lo stilista– pensai che Avedon sarebbe stato il “mio” fotografo». Il loro incontro fu esplosivo, ognuno dei due esaltava la creatività dell’altro. Avedon amplifica i colori di Versace e le modelle inquadrate come in una sorta di coreografia molto dinamica: Linda Evangelista, Christy Turlington, Kate Moss e tante altre non sono il soggetto passivo dell’obiettivo e dell’abito. Sviluppano un movimento in cui le creazioni di Versace appaiono nella loro profonda innovazione, per forme, colori e materiali usati. Avedon continuò a fare foto di moda solo con lo stilista reggino. Spiegò in un’intervista: «Perché è un uomo generoso di spirito e d’animo. Versace non viene mai a dirmi cosa devo fare. Mi dice solo: “Ecco i vestiti, inventa, io ti pagherò”». Non fatevi ingannare dall’accenno ai soldi, la frase è un inno alla libertà di creare, da soli eppure insieme: le famose parallele che s’incontrano.