Umorismo spiazzante, prosa di alto profilo, battute fulminanti e dissacratorie, testi originali per le canzoni del suo inseparabile amico, Enzo Jannacci, risate a trentadue denti mentre scriveva le sceneggiature dei film di Monicelli. Aveva il carattere giusto per scherzare e sorridere su tutto. Persino sulla morte che l'ha ghermito a tradimento in una grigia serata di metà ottobre del 1982, mentre nella sede Rai di Corso Sempione, a Milano, preparava il suo ultimo servizio per la «Domenica sportiva». A quarant'anni esatti dalla sua scomparsa, scopriamo quanto ancora ci manca Beppe Viola, uno dei più colti radiotelecronisti del secondo Novecento.
Con lui il racconto sportivo era un'arte sublime, era musica e poesia, ironia e leggerezza. È andato via presto, a soli quarantatrè anni, strappato all'affetto della moglie Franca Moretti, delle quattro figlie (Renata, Marina, Anna e Serena) e dei suoi tanti estimatori. Si è perso molte cose che oggi gli avrebbero fatto venire l'orticaria : non c'era il flusso magmatico di Internet con annesso il vizio del «copia e incolla», non c'erano gli smartphone, non c'erano i social con la loro marea di banalità, di insulti e di strafalcioni.
Nei primissimi anni di Rai lo avevo incrociato una volta sola. Un po’ per ragioni anagrafiche, molto perché la mia carriera di cronista di periferia era iniziata nel profondo Sud a tanti chilometri di distanza dalla sua Milano, che allora era davvero una “Milano da bere”, dove la sera era facile trovarlo al "Riccione", ristorante con menù a base di pesce, frequentato da vip come Missoni, Ornella Vanoni, Montanelli, Brera, Oreste del Buono, Abatantuono e altri.
Poi, per conoscere Beppe e ammirare la sua grandezza (non solo di giornalista ma anche di autore, sceneggiatore, attore e umorista) mi è bastato conversare con Bruno Pizzul, suo compagno di lavoro in tante trasferte (nelle quali il nostro lo faceva sempre arrivare in ritardo sull'ora delle partite), e dare una occhiata a due libri : il primo dal titolo “Quelli che...” di Giorgio Terruzzi (omaggio, ovviamente, a Enzo Iannacci), il secondo “Mio padre è stato anche Beppe Viola” scritto dalla figlia Marina che da parecchi anni vive a Boston. È stata lei, Marina, a farci conoscere l'altro Beppe, quello in versione famiglia, pieno di slanci, di generosità e di romantica incontinenza.
Aveva un pessimo rapporto col denaro : era un “mani bucate”, il conto in banca era sempre in rosso, scommetteva all'ippodromo scegliendo cavalli sbagliati, amava il calcio, l'automobilismo e il pugilato, giocava a carte e a biliardo con Cochi e Renato, arrivava a spendere in un giorno quello che una famiglia spendeva in due mesi. Ma a un genio si perdona tutto. Riavvolgendo il nastro, ci si rende conto del vuoto che ha lasciato quel gigante sempre avvolto nel suo loden verde e con la sigaretta in bocca, che Gianni Brera chiamava “Bepinoeu” (Peppinello). Quanto ci manca il suo stile graffiante, disincantato, lontano dalla retorica!
In tanti abbiamo riscoperto il valore dei suoi servizi, pieni di ritmo e di vitalità : le prime tre righe avevano l'efficacia di un escavatore, le ultime servivano per chiudere con un guizzo, con il colpo d'ala del fuoriclasse. Sono passati quarant'anni da quella “maledetta domenica”, ma se mai potesse arrivare un dono divino, ci piacerebbe rivederlo in vita per pochi minuti. Il tempo necessario per una breve lezione ai tanti sgrammaticati di oggi che popolano i social. Magari ci delizierebbe ancora con la sua celebre battuta : «Le telecronache si fanno per mangiare. Le altre cose si fanno per vivere».
*già inviato di “Tutto il calcio minuto per minuto”
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