La principale caratteristica del nuovo libro di Julian Barnes è la sincerità. S’intitola “Niente paura” (Einaudi) e il lettore, come del resto avviene in genere con molte altre opere di Barnes, si chiede, a mano a mano che va avanti, se quello che sta leggendo è un romanzo, un saggio, o un vero e proprio pamphlet su un unico argomento: la morte. In “Festa mobile”, Hemingway consiglia agli aspiranti scrittori: «Tutto quello che dovete fare è scrivere una frase vera. Scrivete la frase più vera che sapete». Ecco, raccontare se stessi sembra la cosa più semplice del mondo. Non è così. Eppure è quello che fa Barnes. Non può e davvero non sa farne a meno. Barnes sopporta tutta la verità, la carica su se stesso, sulle sue spalle forti, abituate ai pesi esistenziali. Si serve della sincerità. Se ne nutre. D’altra parte, se non facesse così, i suoi libri suonerebbero come una moneta falsa. Nel suo caso, la sincerità coincide con la verità. L’esempio più evidente è «Il pappagallo di Flaubert» – la prima edizione risale al 1984, ma recentemente è stato ripubblicato da Einaudi – in cui per la prima volta confeziona un libro “strano” dei suoi: racconta la storia di un giornalista/scrittore (che ovviamente assomiglia molto al suo alter ego) incaricato di fare uno studio/reportage sull’autore di “Madame Bovary”, per l’appunto. Dall’indagine letteraria si passa con naturalezza alla ricostruzione storica, dallo scavo biografico al diario, alla vera e propria narrazione autobiografica. Ne viene fuori uno dei romanzi più innovativi e coinvolgenti della seconda metà del Novecento. Anche in questo “Niente paura”, nell’andare alla ricerca di una certa idea della morte – con tutto quel che significa oggi ai tempi del Covid e delle guerre incombenti – di un’efficace rappresentazione della fine. La meditazione di Barnes – oggi scrittore non più ragazzino con i suoi 76 anni, ma che in effetti ne aveva solo 62 nel 2008 ai tempi della prima edizione di “Niente paura” – fra citazioni, ricordi, excursus pseudofilosofici, affronta il cammino difficile di un je-me-souviens di perecchiana memoria, trasformandosi infine – come una vera e propria fenice che risorge dalle ceneri – in una sorta di crepuscolare (ma anche divertito e divertente) romanzo tagliente, «nel senso – come è stato scritto – che oltre a essere arguto fa male». Libro che, come ha fatto notare il grande critico Frank Kermode, è «proustiano nell’impianto», fin dalla prima riga ci mette a tu per tu con l’autore/protagonista del romanzo-diario-saggio-meditazione, che confessa subito: «Non credo in Dio, però mi manca». E lì realizza la sua ambizione di entrare a far parte della «fitta schiera di tanatofobici» che l’ha preceduto: da Montaigne a Renard, da Rachmaninov a Larkin, da Stendhal a Zola, fino all’amato Flaubert. Il risultato è un’esaustiva sorta di «tanatoenciclopedia», che Barnes confeziona per noi con delicatezza e, come sempre, con umorismo, deciso a rivelarci infine il suo segreto: aver trovato nella sua stessa scrittura una «via per la propria sopravvivenza».