Ci sono storie che nascono da un sogno, altre da lacerti di vita vissuta, altre ancora dall’affiorare di ricordi familiari o dei propri luoghi, un territorio comune di affezioni e accadimenti che è impossibile non ricollocare nella scrittura e affidare al fermo immagine della parola scritta. Anche quando si tratta di storie semplici, un tassello dell’infinito raccontare siciliano declinato da narratori e narratrici dentro la letteratura che – ha sempre sostenuto il grande scrittore Javier Marías – «è in grado di svelare il vero volto degli umani, ambiguo e mutevole sempre, finché la morte non lo fissa in eterno nell’ultima smorfia che gli è concessa». E comincia dalla rigidità della morte di don Carmelo, nell’incipit del racconto, “La mano del padrone” (All Around Edizioni) di Filippo Anastasi, una lunga carriera di giornalista, già direttore di Rai Giubileo, vicedirettore del TG2, inviato e conduttore TG1 e inviato del “Messaggero”. Una saga siciliana, come indica il sottotitolo, un romanzo breve che s’incastona in una geografia letteraria ambientata ad Acireale, e rimescola ricordi e altri racconti. Ma questa è una storia dolceamara che lo sguardo benevolo e sognante, talora naïf, dell’autore arricchisce con punte di nostalgia-madeleine per oggetti, costumi, presenze, persone che non ci sono più. Come se nel non detto si pensasse: è stato e non sarà mai più. E infatti insieme alla morte di don Carmelo, «un bel morto, maestoso, con i lineamenti distesi di chi fino all’ultimo ha vissuto una grande vita», appare chiaro che a scomparire è il mondo di don Carmelo, di una vita gattopardiana, finita con lui. Tuttavia, a dispetto del funereo incipit, questa è la storia della lunga, fortunata e felice vita di un uomo nato da una modesta famiglia siciliana, che percorre il ’900: da ragazzo di bottega della “putìa” del padre, a furiere dopo la disfatta di Caporetto, ad ambulante, col suo carretto tra i paesi dell’Etna, di grande prestanza fisica («pareva un principe normanno»), gentilezza di modi e talento di venditore. Fino all’incontro con Maria, figlia del padrone della filanda di Castiglione di Sicilia, «un paesetto sperduto nell’entroterra di Taormina», ricca, determinata, di buona cultura e “baronessina” per parte di madre. Una svolta felice con il matrimonio, i figli, gli affari, le ricchezze accumulate e un modo di gestire la famiglia da severo padre-padrone. Tra luce e lutto, e tra le contraddizioni radicate nell’anima antica siciliana (non mancano i dolori familiari), l’esistenza di gran signore di don Carmelo, anche dopo la vedovanza, procede “serena”, con una grande passione che dà senso ai suoi giorni, il gioco, il cui demone lo vede protagonista di spicco dal Casinò di Taormina al Dragonara di Malta.