E’ capitato certamente a tantissimi di noi. Quel dilemma: partire o restare? Forse il dilemma chiave del Sud, prima o poi (ma non solo il Sud, non più, ormai). Lo abbiamo visto declinato in decine di forme e circostanze, per amici, parenti, familiari. In tante storie di famiglia, di una o due o più generazioni fa, o della prossima. E anche in un altro modo, tutto interiore: dopotutto, partire è anche percorrere i tanti altrove virtuali o potenziali a cui i nostri fantastici strumenti moderni ci danno accesso. E anche restare, oggi, può voler dire contaminarsi col mondo, stare in mezzo a una quantità d’altri mondi. È forse, allora, una cosa specie-specifica: non siamo sempre tentati dalla partenza e dalla diaspora perché meridionali, ma perché Sapiens. E l’atto di partire, di errare, ma anche di restare – purché sempre come relazione con un luogo, con un punto di partenza – ci appartengono da sempre, da quando in forma di tribù di cacciatori e raccoglitori seguivamo le linee delle prede e delle stagioni e percorrevamo già la Terra. «Partire e restare sono i due poli della storia dell’umanità», è il punto di partenza del bel saggio, molto fortunato e apprezzato, “La restanza” (nelle “Vele” Einaudi) dell’antropologo calabrese Vito Teti, studioso di fama internazionale, eccellenza intellettuale della Calabria, con un eccezionale valore aggiunto: lui, proprio lui è un “restante”. Malgrado i suoi studi – e le sue inquietudini, senza che si possano scindere con precisione – l’abbiano portato in giro per il mondo, vive nella casa in cui è nato, in un piccolo paese della provincia di Vibo, San Nicola da Crissa (1253 abitanti dichiarati, uno statuto di paese spopolato perfettamente percepibile nelle case vuote, nelle “rughe” silenziose). E incarna la condizione duplice che questo costrutto da lui ideato e messo a punto lungo una vita intera di riflessioni, etnografie e saggi comprende: appunto, la “restanza”. Un costrutto scientifico che è anche un sentimento, che è anche un ossimoro: viaggiare da fermi, restare dinamico. Un “restare” percepito, anzi vissuto nella sua durata, nella sua vertiginosa immobilità, nel suo fermo dinamismo. «Amo i miei luoghi – scrive Teti nella prima pagina – e, a volte, odio restarvi e vorrei disseminarmi in tutti i luoghi del mondo; avverto spesso la frustrazione del restare per cambiare un mondo che non sembra voler cambiare, che anzi sembra scomparire e morire giorno dopo giorno, ed ecco che mi accingo a raccontare il senso, il disagio, la bellezza, di vivere nel luogo da cui osservo il mondo». Le parole chiave del libro (che sarà presentato domani, alle 17, nell’ambito del Festival Leggere&Scrivere di Vibo) ci sono tutte: «luoghi», che non sono coordinate geografiche o circoli di mura, ma costruzioni culturali e simboliche, reti di relazioni e legami, tramate di memorie, di tempo tessuto, intimamente e collettivamente, di riti condivisi, persino di assenze; «disseminare», perché l’opposto di restare è gettarsi come semi in nuove terre, con nuovi movimenti, attendere altri raccolti; e ancora «senso» e «bellezza». E c’è, come sempre nelle opere di Teti – anche i più severi saggi scientifici – la scaturigine interiore, l’esperienza diretta e sentimentale, il diario intimo dell’etnografo, le emozioni del bambino il cui padre, emigrato in Canada, era in un altrove favoloso da cui non è tornato per anni, mentre il piccolo figlio viveva, con le donne di famiglia, il tempo dell’attesa. Ma già da allora gli era evidente che quel tempo non è vuoto e spoglio, perché, parallelo e coincidente al moto di chi parte, c’è il movimento da fermo di chi resta e attende, in un’attesa che non è sospensione e nulla ma può essere speranza, pazienza, attenzione, capacità di rinnovare l’esistente. Quell’eco lontana di un mondo ora sparito – il mondo delle emigrazioni del secolo scorso a cui si sono sovrapposti altre diaspore e altri arrivi, altre rotte originate da guerre, conflitti, cambiamenti climatici – c’è sempre nelle opere di Teti (un elenco lunghissimo, in un’interrogazione costante e multiforme dei grandi temi del nostro presente), ne costituisce il sottotraccia, la tonalità sentimentale e nostalgica. Chi partiva aveva un suo modo di restare, proiettando un doppio, cercato nel “paese gemello” di là dall’oceano, per esempio; chi restava viaggiava nel tempo, nell’immaginazione. Così come c’è un modo di andarsene senza muoversi, senza accogliere il nuovo e l’altro, senza mediare col mondo, e c’è un modo di restare che equivale a fuggire (lo vediamo continuamente: si può fuggire nel mito, nel passato, nell’inerzia, nel vagheggiamento sterile d’un “tempo passato” leggendario e irripetibile, che funziona come alibi per la paralisi del presente). C’è una maniera spaesante di restare in un luogo che ci sembra di non riconoscere, che è cambiato e non collima più con la nostra memoria. Allora ecco che «spaesato» può essere, a buon diritto, sia chi è partito sia chi è restato, e poche cose fanno più paura e tristezza d’essere spaesati nel proprio paese, erranti a casa propria. Sentimento che, sono certa, prima o poi tutti proviamo: lo “straniero” possiamo essere noi a noi stessi, e dobbiamo inventare un modo per «rappaesarci». Perché se sono coinvolti nell’identico movimento, opposto e coincidente, “partiti” e “restati” sono coinvolti pure nella stessa responsabilità: ri-significare il mondo, ri-pensarlo ogni volta, ri-dargli vigore e futuro. Anche se è un mondo che parla altre lingue e si trova a migliaia di chilometri; anche se è il mondo chiuso ed embrionale della “ruga” di casa. Anche se è la città dove siamo nati e dove non ci raccapezziamo più (e la recente, traumatica esperienza del lockdown, seguita da un lungo distanziamento sociale, ha reso tanti “spaesati” in casa propria). Ma lì sta l’incaglio. La «restanza» è concetto pieno e fecondo se, in quell’ibridazione costante di lontananza e prossimità, di fuga e ritorno, di moto e di stasi, si riprogettano le comunità: rifondare i paesi non vuol dire aprire e ristrutturare immobili (la pessima campagna «una casa a 1 euro»!), ma ricostruire il senso di comunità, ripensare i servizi e gli spazi, «stipulare un nuovo patto sociale e valoriale» tra chi è rimasto, chi è tornato, chi sta arrivando o arriverà (perché questa, con buona pace dei sovranisti, è una certezza storica e sociale). E ce ne facciamo davvero poco di convegni ed “eventi”, di concorsi di bellezza tra borghi («borgo» è luogo fortificato, baluardo chiuso; «paese» è il villaggio come forma del convivere umano, piccola patria, trama orizzontale tra individui e con la natura e verticale coi morti, i santi, le memorie), di turismi di spoliazione e consumo, come ce ne facciamo davvero poco di culti della memoria paralizzanti e nostalgie regressive e retrotopiche (certe «paesologie» fondate sulle rovine estetizzate, sulla contemplazione romantica del vuoto). La «nostalgia» – anch’essa sentimento intimo e costrutto scientifico, che s’accompagna a un altro sentimento che è, assieme, tratto psicologico dell’uomo Vito Teti e categoria di studio dell’antropologo, la «melanconia» – viceversa può essere costruttiva e utopica e assertiva. In pagine di commovente tensione etica, Teti afferma la qualità militante di un’antropologia che sia capace di alzare la voce contro modelli di sviluppo alienanti, che si metta a difesa dell’umano, elaborando utopie immense o minimaliste (forse è la stessa cosa...), esercitando il camminare come scienza e arte, la lentezza come «progetto politico e pubblico, visionario e concreto». Diceva Hölderlin che l’uomo abita poeticamente la terra. Ma deve guadagnarselo, quel luogo in cui con-sistere attivamente e partecipare della bellezza. Deve almeno provarci, a dare senso alle cose. Quell’uomo lì, allora, è il «restante».