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Trovare Proust in giro per Parigi con il libro del messinese Luigi La Rosa

Un ritratto fedele dello scrittore nella sua tormentata genialità in un percorso di suggestioni

C’è uno scrittore che insegue cuori giganteschi, abituati a fremiti possenti. Storie diverse tra loro, ma con lo stesso nucleo – o cuore – intimo. I protagonisti sono cercatori di Bellezza, geniali artefici, in qualche modo – come l’albatro di Baudelaire – inadatti alla vita, e che pagano un prezzo assai alto per vivere, e creare. E oltre a questo, li accomuna una città dai “lampi d’oro”, che segna le loro vite, così come ha segnato quella dell’autore, che ne ha fatto una delle sue «piccole patrie».

Parlo del messinese Luigi La Rosa, classe ’74, scrittore e collaboratore di giornali e riviste, docente di scrittura creativa, che vive tra Catania e Parigi e, dopo i due bei romanzi biografici dedicati a Gustave Caillebotte (“L’uomo senza inverno. Storia di un genio dimenticato dell’Impressionismo”, 2020) e Vincenzo Bellini (“Nel furor delle tempeste”, aprile 2022), entrambi per Piemme, ha appena pubblicato, nella collana “Passaggi di dogana” di Giulio Perrone (una delle più interessanti del panorama editoriale), “A Parigi con Marcel Proust”, guida interiore ai luoghi dell’anima di Proust e di Parigi, o forse viaggio à rebours dentro una vita (un’altra!) segnata dal genio e dalla fragilità, e dentro tutto ciò che ha contribuito a costruire quell’ «edificio di suggestioni» che risucchia l’autore e il (fortunato) lettore.

Una guida, certo, dal momento che i capitoli portano il nome di altrettante strade parigine, da rue Hamelin – dove il 18 novembre del 1922 Marcel Proust muore – , a ritroso, o forse in avanti, fino al boulevard Malesherbes – dove lo scrittore era nato 51 anni prima. Perché il tempo dentro di noi, come dentro alla letteratura, non si muove in modo lineare né in un’unica direzione. Un’antiguida, il cui scopo è – anche – smarrirsi, dimenticare il dolore. Accanto alla ri-scoperta dei luoghi proustiani, infatti, corre una seconda linea narrativa di grande delicatezza, che riguarda un amore perduto dell’io narrante, il quale, mentre cerca attivamente le tracce antiche dell’uomo Marcel, dello scrittore Proust, vuole cancellare il suo dolore recente, e assieme ripensarlo, ritrovarlo e allontanarlo dentro di sé. Proprio come il movimento di andirivieni, di costruzione e ri-costruzione della memoria che ripercorre incontri, separazioni, ossessioni. Ovvero, la materia incandescente con cui è forgiata la monumentale opera proustiana, “Alla ricerca del tempo perduto”, opera-mondo capitale per il Novecento e oltre.

Luigi La Rosa non omette un nome, un incontro, uno snodo: la famiglia di Proust, il legame con la madre, il rapporto col padre scienziato e positivista pure negli affetti, il legame coi luoghi, col loro vischioso potere, e la società parigina, spumeggiante e marcia, raffinata e sordida. E poi la scoperta che fa Marcel della propria omosessualità, sempre ibridata con l’amore come sparizione e ossessione, minato continuamente dal senso d’abbandono, ma anche l’amore come principio di conoscenza. E, ovviamente, la letteratura, che tutto questo brucia e rincorre, esalta e ritesse.

Eppure La Rosa – che domani pomeriggio alle 16 sarà protagonista di un incontro al Festival Leggere & Scrivere di Vibo – ci conduce in giro per un mondo vuoto, la Parigi di oggi, dove le tracce di Proust e del suo mondo le dobbiamo cercare, e lui le trova per noi, con la qualità rabdomantica della sua immaginazione, della sua ipersensibilità. Così non possiamo che seguirlo, sposare la sua ossessione (quella di Marcel, quella di Monsieur Proust), e viaggiamo nel tempo che trama i luoghi, nelle parole che tramano il tempo.

Il tutto con una temperatura letteraria, sulla pagina, altissima, un linguaggio lussureggiante eppure esatto, che rispettosamente – eppure impudicamente – entra in risonanza con la sfavillante lingua proustiana, ce ne restituisce la suggestione (forse per La Rosa si può fruttuosamente parlare di “poetica della risonanza”, come accade a certi cristalli, a certi strumenti).

Seguiamo il narratore e il narratore che ispira il narratore, da una casa all’altra, fuori e poi dentro le relazioni – gli amanti più famosi, specie l’autista-segretario Alfred Agostinelli –, fuori e dentro la vita mondana (correggendo anche quell’immagine di recluso volontario che non coincide, non pienamente, con la biografia di Proust), fuori e dentro la “stanza di sughero” che protegge e isola dai rumori del mondo, perché lo scrittore possa ricrearli con la sua scrittura (quale metafora migliore?).

Lo seguiamo disciolto nella luce di Parigi, nell’ombra ferrosa della Tour Eiffel, nel rumore di foglie e stormo sotto un filare d’alberi, in un’improvvisa fragranza nell’aria: La Rosa, cercatore di paesaggi, di istanti, di ombre, li ritrova per noi, per Proust, e con tranquilla, posata audacia ce li ridona. Come fa? Lo dice lui stesso e – attenzione – vale anche per gli altri suoi bei romanzi-biografia: «Con un adeguato allenamento al sogno». Libri come questo piccolo gioiello sono certamente parte di un allenamento del genere. Monsieur Marcel approverebbe.

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