Anche Francesco Rosi, il regista che in Italia ha rivoluzionato il cinema di impegno sociale e di cui oggi ricorrono i cento anni dalla nascita a Napoli, aveva avuto le sue «sliding doors» (le porte scorrevoli della vita che possono portare, a seconda della scelta, in direzioni diverse, anche opposte). Ma aveva solo tre anni e a decidere furono i genitori. Anzi fu la mamma, che impedì al bambino e al marito di andare a Hollywood per ritirare un premio. Il piccolo Francesco aveva vinto un concorso fotografico che cercava nel mondo un sosia di Jackie Coogan, protagonista de “Il monello” di Charlie Chaplin. Il padre, responsabile di un’agenzia marittima, sarebbe partito volentieri perché aveva velleità da direttore della fotografia nel cinema. Rosi invece rimase in Italia, anzi nella sua Napoli, dove “da grande” diventò il fondatore di un cinema d’inchiesta di grande impatto civile: «Con i nostri film – diceva – volevamo far crescere la coscienza sociale», schierato in quella che si poteva chiamare (e allora lo era, nel senso più nobile del termine) ideologia di sinistra. Su questa base, dopo un iniziale lavoro come vignettista a Milano, sono nati i suoi capolavori, di rilievo internazionale, quali “Salvatore Giuliano” (1962), “Le mani sulla città” (1963), “Il caso Mattei” (1971), “Lucky Luciano” (1973), “La tregua” (1997). In tutto soltanto una ventina di film, conseguenza di una vita piena non solo di soddisfazioni e premi prestigiosi, ma anche di dolori, che in più momenti gli hanno bloccato la voglia di creare. Prima, nel 1969, la morte a soli 15 anni della figlia Francesca, che aveva la sindrome di Down, in un incidente stradale in cui alla guida era proprio il padre, rimasto ferito. Già aveva alle spalle una separazione complicata dalla compagna Nora Ricci, madre della ragazza ed ex moglie di Vittorio Gassman. Per riprendersi gli fu di fondamentale aiuto Giancarla Mandelli, sposata nel 1964, sorella della stilista Krizia; da lei ebbe la figlia Carolina, attrice, poi diventata moglie di Luca De Filippo. Rosi fermò ancora la sua carriera cinematografica dedicandosi solo al teatro, proprio per stare il più possibile accanto alla moglie, colpita dal morbo di Alzheimer. Ma non poté evitare la terribile disgrazia domestica in cui, nel 2010, la donna morì, quando la sua vestaglia prese fuoco. «Non riesco a togliermela di mente – diceva il regista – la ho sempre davanti agli occhi». Da allora, pur mantenendo una vita attiva, non lavorò più come regista, fino alla morte, il 10 gennaio 2015. Quando nel 1962 girò “Salvatore Giuliano”, Rosi, oltre ad aver diretto i suoi primi lungometraggi “La sfida” (1958) e “I magliari” (1959, con Alberto Sordi), aveva avuto diverse esperienze come aiuto regista. Fondamentale soprattutto quella a fianco di Luchino Visconti sul set de “La terra trema” (1947), dove imparò a lavorare, secondo lo stile neorealista, con attori non professionisti e a rapportarsi con la Sicilia. E il film dedicato al bandito di Montelepre è stato definito una «controstoria della Sicilia dal 1943 al 1960». Simulando una tecnica documentaristica, ma mantenendo saldo il ritmo narrativo con un uso allora innovativo dei flash-back (senza una coordinazione temporale), mise in primo piano i lati oscuri, a cominciare dalla strage di Portella della Ginestra, di una vicenda che ha visto coinvolte in simbiosi mafia e politica, e che ancora oggi non è stata del tutto chiarita. Nonostante le intimidazioni iniziali, Rosi con il suo modo di fare sincero e senza altri fini se non quelli dichiarati, conquistò i siciliani che parteciparono alle riprese con trasporto e convinzione, fino a ottenere un risultato di eccezionale valore. Il film fu inizialmente osteggiato, la censura allungò i tempi del nulla-osta e la Mostra di Venezia non lo selezionò asserendo che si trattasse di un documentario. Non era vero neanche un po’, tanto che il film raccolse poi una messe di premi, tra cui l’Orso d’argento al Festival di Berlino. Leonardo Sciascia, pur con qualche spunto critico sulla “mitizzazione” di Giuliano, lo definì «l’opera più vera che il cinema abbia mai dato relativamente alla Sicilia». Come fosse quasi un risarcimento, l’anno dopo Venezia gli attribuì il Leone d’oro per “Le mani sulla città” (con Rod Steiger), altro capolavoro, stavolta sulla speculazione edilizia a Napoli. Rosi l’aveva ideato con lo scrittore Raffaele La Capria, uno dei suoi amici del capoluogo campano, con Giuseppe Patroni Griffi, Antonio Ghirelli e Giorgio Napolitano. Lo si può considerare quasi una via italiana al cinema gangsteristico di taglio americano: altra assoluta novità. Per questo film Rosi ebbe nel 2005 la laurea honoris causa in Pianificazione territoriale urbanistica e ambientale, nell’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Tra i film di Rosi si deve ricordare almeno “Il caso Mattei”, premiato con la Palma d’oro a Cannes, anche questo con un’impostazione originale, in cui spezzoni di documenti d’epoca si succedevano alle parti narrative (oggi si parlerebbe di docufilm), sempre con un grande spessore di espressività politica, poi adottato da Oliver Stone nel suo film su Kennedy. Nel ruolo di Mattei spiccava Gian Maria Volontè, l’attore simbolo di molte opere di Rosi. La capacità magistrale del regista appare anche nelle variazioni di stili, soggetti e idee filmiche: dallo spiazzante film-fiaba “C’era una volta” (1967, con Sophia Loren e Omar Sharif), all’atmosfera metafisica di “Cadaveri eccellenti” (1976), trasposizione de “Il contesto” di Sciascia; dal film-opera “Carmen” (1984, tratto da Bizet), in cui per primo fa agire i cantanti all’aperto, a “Cronaca di una morte annunciata” (1987), criticatissima, eppure sensibile, trasposizione del romanzo del suo amico Gabriel García Márquez. Per capire il valore di tutti i suoi film si può leggere il libro “Io lo chiamo cinematografo. Conversazione con Giuseppe Tornatore”, un allievo che si è rivelato degno di lui. Quando lo intervistai nel 1987 (eravamo ad Agrigento, dove il regista aveva ricevuto l’Efebo d’oro del Premio Cinema-Narrativa per “Cronaca di una morte annunciata”), Rosi si autodefinì così: «Sono un napoletano con il temperamento tipico dei napoletani. Sono quindi un istintivo che si corregge con la costante aspirazione a razionalizzare le cose. Qualcuno talvolta mi ha accusato di freddezza laddove c’è invece uno sforzo a giudicare quello che si sta facendo senza mettere da parte le emozioni che sono quelle che hanno determinato la scelta di un lavoro. Il film è un’opera d’architettura con equilibri, spazi, volumi, e tutto deve essere al proprio posto». Sono le parole di un Maestro, pienamente consapevole di sé.