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Lingua, femminile... plurale: sei scrittrici commentano l’iniziativa del Dizionario Treccani

La “svolta” nel presentare le declinazioni per genere di nomi e aggettivi: per quasi tutte è uno snodo necessario, a lungo atteso

Se le parole si perdono, si perde anche il senso della realtà che ci circonda, ma lo stesso avviene se le parole rimangono congelate o non si adeguano ai cambiamenti della società, perché è dal cuore stesso della parola che affiora costante l’esigenza che essa si rinnovi e si imponga. Il cammino delle parole, che ci salvano e ci permettono di esistere, è stato sempre faticoso e migrante ma audace: spostamenti di significato, assunzioni da altre culture e altre lingue, accostamenti semantici, neologismi nati negli spazi travagliati della storia e delle esistenze, evocazione di lemmi antichi. Ecco perché il nuovo “Dizionario della lingua italiana” della Treccani, diretto dai linguisti Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, il primo dizionario che registra anche le forme femminili di nomi e aggettivi presenti da sempre solo al maschile (con l’indicazione del femminile posposta al maschile), rimette alla pari maschile e femminile, dando la precedenza al femminile e rispettando così l’ordine alfabetico.
I professori Della Valle e Patota, che si sono avvalsi di una redazione giovane, hanno presentato l’iniziativa alla recente XXIII edizione di Pordenonelegge, ricevendo moltissimi consensi. Ecco di seguito i pareri di sei scrittrici che nella scrittura hanno sempre dato rilievo al femminile.
Dacia Maraini: Sono d’accordo con l’iniziativa della Treccani. La grammatica non si può cambiare, ma ci si deve rendere conto di quanto sia misogina. La parola «Uomo» esprime l’universale e comprende anche la donna. La parola «Donna» indica solo il mondo femminile ed esprime il particolare. Qualcosa comunque si può e si deve fare per indicare la presenza femminile nelle professioni. Nella mia scrittura è stata sempre presente questa necessità e credo che ne saremo sempre più consapevoli.
Nadia Terranova: La lingua crea mondi, rispecchia e anche produce. Per questo sono molto contenta che finalmente sia dato diritto di cittadinanza al femminile e anche rendendo giustizia alla vastità della lingua italiana. Sono completamente d’accordo con quanto sta avvenendo. E penso che la lingua letteraria sia contaminata da tutti i cambiamenti che accadono, sia da quelli parlati sia da quelli istituzionalizzati. Per cui mi auguro proprio di sì.
Elvira Seminara: Finalmente la finiremo con la medichessa, la vigilessa, l’avvocatessa e la poetessa e insomma con questa resa dell’orrida desinenza in –essa. E a tutti quelli (ne avverto il fosco ciangottìo) che diranno che «medica» e «avvocata» suonano male voglio dire: come mai nessuno si è mai ribellato alla maestra, alla segretaria, alla sarta, alla portinaia, alla commessa, all’operaia, alla pescivendola, alla fruttivendola? Forse perché qui la desinenza in –a non suscitava alcun allarme, essendo quelle occupazioni “naturalmente” femminili, non presidiate da uomini? La lingua è uno strumento vivo, è un organismo duttile e trasformativo che non solo registra i fatti, ma in qualche modo li certifica e orienta. E spetta ai dizionari legittimarli, i nuovi modi, i nuovi vocaboli per stare al mondo.
Laura Pariani: La notizia che la versione aggiornata del dizionario italiano Treccani registra le forme femminili di nomi e aggettivi oltre a quelle maschili mi ha fatto piacere. Era ora… Ricordo che, quando alle elementari mi veniva insegnata la grammatica, la maestra insisteva sulla necessità di usare aggettivi e pronomi di genere maschile per designare una pluralità composta da uomini e donne, anche in presenza di un solo uomo. Non c’erano spiegazioni a tale regola, ma la mia mente bambina ne deduceva che «maschio vale di più». Perciò che adesso nel dizionario i termini femminili compaiano come voci a sé, non più in riferimento al termine maschile, mi pare un passo avanti che tiene conto dei cambiamenti della realtà; per esempio, si dà spazio finalmente alla definizione di molte professioni delle donne che hanno fatto fatica ad affermarsi nella lingua parlata, perché riguardano lavori che storicamente erano considerati solo maschili. Insomma questa innovazione vivifica quel nesso che sempre deve legare lingua, pensiero e realtà che cambia.
Stefania Auci: È una cosa che saluto con grande gioia e con grande soddisfazione perché essere «riconosciute», essere «viste» da parte di un’istituzione culturale come la Treccani è una cosa fondamentale. Forse riuscirà a smuovere qualcosa, ad aiutarci a cambiare qualcosa. Ricordiamoci sempre che il linguaggio è lo specchio della società, che è lo strumento attraverso cui la società crea il modo in cui gli altri ci percepiscono e in cui noi stessi percepiamo il nostro modo di stare al mondo. È una soluzione assolutamente intelligente e che lavora tantissimo su pregiudizi che abbiamo ancora noi della nostra generazione, perché i ragazzi, gli adolescenti, tutto questo non lo sentono più. Per loro è normale declinare al maschile e al femminile, pensarsi in una maniera differente rispetto a noi. Ben vengano queste iniziative. Un cambiamento che sta già influenzando la lingua letteraria.
Costanza DiQuattro: Non sono una grande sostenitrice dell’introduzione del femminile in ogni sua forma. Quando si è tanto parlato di tutte le professioni che hanno avuto una declinazione al maschile – l’avvocato, il magistrato, l’ingegnere –, e poi c’è stata la necessità di trasformarli al femminile io l’ho considerata una cosa superflua, perché non credo che l’emancipazione delle donne passi da una declinazione, anzi essendo una purista – o quantomeno spero di esserlo – della lingua italiana ritengo che certe cose potrebbero essere mantenute così come sono e nulla toglierebbero alla forza delle donne che si misura sicuramente in un’altra dimensione e in un’altra maniera. La declinazione di tutto il femminile non ci rende femministe, anzi è una battaglia che passa dalla lingua italiana e porta inevitabilmente a delle degenerazioni come l’asterisco alla fine del femminile o del maschile che rende questo neutro ridicolo. Siamo stati abituati per formazione culturale a partire dal mondo greco a tre generi, maschile, femminile e neutro, e quindi non c’era bisogno di sottolinearlo da un punto di vista linguistico. È vero, però, che le grandi rivoluzioni partono da piccole cose, e questo è l’aspetto positivo dell’iniziativa, anche se non credo che aggiunga valore alla donna.

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