Il crinale è sottilissimo, fra testimonianza e nostalgia, tra racconto e rimpianto. Saverio La Ruina, entertainer della parola che si fa teatro di narrazione, lo percorre con sicurezza, consapevole spavalderia e capacità magistrale, tutte qualità che, da “Dissonorata” in poi, compongono le sue riconosciute e premiate capacità di attore-autore. Lui con la parola e con un perfetto uso, misurato e costante, dei gesti (un racconto nel racconto), riesce a ricostruire sia il protagonista (in questo caso se stesso) sia gli altri personaggi (stavolta quasi una moltitudine) fino a portare lo spettatore dentro tutto quello di cui parla.
Crinale sottilissimo, perché “Via del Popolo”, prodotto da Scena Verticale, al debutto nazionale nel teatro Menotti di Milano, è il “cuntu” dell’infanzia dell’autore, a Castrovillari (in provincia di Cosenza) e della via in cui abitava da bambino e ancora abita, vicina – basta girare l’angolo – alla centrale via Roma, dove il padre Vincenzo e lo zio Nicola gestivano il Bar Rio.
Le emozioni, inevitabili, si trasferiscono dall’attore allo spettatore: per chi ha vissuto gli anni 60 e 70 appare evidente la contestazione della società odierna, in cui si è smarrito il senso di comunità, allargata non solo ai familiari, ma anche ai vicini e ai paesani in generale. Quella dove il senso di solidarietà è innato, frutto di una spontaneità che nasce insieme con le persone, dal contatto diretto, dal sapere tutto di tutti, non per alimentare i pettegolezzi, ma per un reciproco aiuto nel caso di un tacito bisogno.
La Ruina supera il rischio di una nostalgica battaglia di retroguardia, mantenendo la sua narrazione in una sorta di evidenza, dove ciascuno evoca dentro sé stesso le differenze e ricostruisce come vuole il tempo. È questa la chiave di accesso allo spettacolo, che potrebbe anche intitolarsi «La persistenza del tempo», come il famoso dipinto fantastico di Salvador Dalì, tanto che è uno degli “orologi molli” del pittore spagnolo a essere il quasi unico elemento scenico di «Via del Popolo». Quando lo zio Nicola regala a Salvatore, piccolo cameriere del bar, un cronometro, gli fa credere che con quello si può fermare il tempo. Il bambino scopre presto che non è possibile, salvo poi riuscire a farlo adesso, da grande, su un palcoscenico.
Così intreccia le sue vicende familiari (con il padre che a 84 anni si perde di notte in un campo di grano e la madre che lo cerca) con quelle di un personaggio immaginario, chiamato 30 Minuti, il tempo che gli occorre per percorrere l’intera via del Popolo, a fronte dei due minuti sufficienti oggi. Allora ogni bottega era un’occasione per fermarsi e chiacchierare e quel tempo non era mai perduto. Ogni persona era un mondo: l’elettricista Pino, che aggiustava i televisori con i suoi colpetti magici; Pino del ristorante Pino, che andava avanti a bicchierini di Kambusa; De Simone, bigliettaio del cinema Ariston (dove il proiezionista tagliava e incollava pellicole alla maniera di «Nuovo cinema Paradiso», uno dei momenti più divertenti); Mastu Giuvannu, il sarto zoppo vestito a lutto per la morte della merciaia Ida, di cui era segretamente innamorato; Tonino il macellaio, che poteva essere scambiato per James Caan del «Padrino»; Zu Franciscu e Mastu Ninu, alimentari e falegnameria attaccati, tanto che si rischiava di «addentare il legno e inchiodare il panino»; e altri ancora.
La Ruina diventa ognuno di loro rimanendo se stesso, in un gioco di “specchi diversi”, miracoli che possono avvenire su un palcoscenico. Le storie sono tante, compresa l’inaspettata comparsa di Julian Beck e del suo Living Theatre a Castrovillari, forse un segno del destino. Oggi, senza botteghe, via del Popolo è quasi un deserto. La Ruina non rimpiange, piuttosto constata e fa pensare. L’umanità ha fatto impensabili balzi in avanti, ma ha bisogno di ritrovare se stessa. È il senso, anzi la necessità di “Via del Popolo” (titolo perfetto), adesso in tournée, tra l’altro il 20 dicembre al Teatro dei 3 Mestieri a Messina e il 27 al Vittoria nella sua Castrovillari.
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