Sono le 16 esatte quando, secondo la tradizione, l’orologio che «dà il tempo» al Teatro alla Scala, collocato sopra il palco a circa venti metri d’altezza e visibile da ogni lato, segna l’ingresso dei Virtuosi del Teatro alla Scala, subito dopo raggiunti dal maestro Filippo Arlia, pianista, direttore d’orchestra e didatta, talento calabrese che ha portato nel tempio della musica il concerto “Inedita-mente Cilea”, dedicato al versante strumentale, poco noto, della produzione di Francesco Cilea, nato a Palmi nel 1866, morto a Varazze nel 1950, vissuto nella stagione più feconda della musica lirica, operista ed erede della tradizione strumentale italiana. Una scelta, questa del maestro Arlia, frutto di una ricerca monografica che da studioso di storia della musica, oltre che da impeccabile esecutore, vuole ridare spazio alle opere inedite di Cilea, conosciuto soprattutto per la sua “Adriana Lecouvrer”, rappresentata per la prima volta nel 1902 allo storico Teatro della Canobbiana di Milano (oggi Teatro lirico Giorgio Gaber), ma che alla Scala concluse la sua esperienza compositiva operistica con “Gloria”, rappresentata nell’aprile 1907. La scelta di Arlia ha poi incontrato l’entusiastica adesione dei Virtuosi, il talentuoso gruppo di musicisti dal repertorio ampio e versatile, appartenenti all’Orchestra del Teatro alla Scala e alla Filarmonica della Scala, anch’essa un’alleanza stretta nel corpo della musica, tra giovani (molti dei quali meridionali) e persone più mature che, abitualmente senza direttore, sentono l’esigenza di far conoscere insieme la musica strumentale e virtuosistica italiana. Una sfida, anche perché il concerto (di prossima uscita su Cd) rientra in un’iniziativa molto bella della Scala: invitare “Giovani e Anziani” a pomeriggi musicali, secondo una formula di accoglienza ideata dal maestro Claudio Abbado (esaltante la sua stagione alla Scala come direttore musicale dal 1968 al 1986), poi interrotta ma ripresa da alcuni anni. E infatti, in platea, dopo l’attesa in fila ordinata con i loro insegnanti davanti al teatro, al freddo di un pomeriggio milanese, un folto numero di giovanissimi studenti si è avvicinato in apertura al «Concerto per violoncello in re maggiore» (1737) di uno dei più grandi maestri della scuola napoletana, Leonardo Leo, curato in una riduzione in tre tempi da Cilea quando questi era direttore del Conservatorio di San Pietro a Majella e si sentiva erede e responsabile della tradizione napoletana (a Napoli, Cilea era andato a studiare giovanissimo quando aveva ottenuto dal papà avvocato di seguire la sua passione). Un silenzio ammirevole ha così «riconosciuto» la densità lirica del violoncellista Enrico Bronzi, che suona un violoncello Vincenzo Panormo del 1775 e si è esibito nelle più importanti sale di concerto del mondo con collaborazioni con grandi artisti; in silenzio i giovani hanno «sentito» la potenza emotiva delle note, benché lontane dai nuovi linguaggi cui sono avvezzi. E pazienza se dopo l’esecuzione del «Canto dell’amore» per soli e orchestra d’archi (con suggestiva orchestrazione di Raffaele Cacciola, da un tema inedito di Francesco Cilea), durante l’esecuzione della «Suite in Mi Maggiore per violino e orchestra» c’è stato qualche... applauso di troppo. «Come vogliamo che i giovani si avvicinino a questa musica – dice il maestro Arlia, sempre assai attento alla didassi – , la cui ascendenza settecentesca può risultare distante dai loro gusti, se non li educhiamo con pazienza, mettendo da parte lo snobismo che ci caratterizza? E perciò, accogliamo anche i ripetuti applausi». E infatti, i quattro tempi della «Suite», pubblicati nella versione per pianoforte nel 1937 e inviati alla Casa editrice Ricordi nella versione con orchestra nel secondo dopoguerra, eseguiti magistralmente da Massimo Quarta, classe 1965, uno dei più importanti violinisti della sua generazione (intensa la sua attività concertistica e le esibizioni nelle più prestigiose istituzioni concertistiche), hanno destato l’entusiasmo dei giovani presenti in platea, e in particolare l’ultimo brano in programma, la «Piccola Suite per orchestra», risalente agli anni 1931-1932, composto da tre movimenti, «Danza», «Sulle trame del sogno /Notturno» e «Marcia Trionfale», in cui Cilea innestò, su strutture formali e armoniche nel complesso tonali, grumi di cromatismo e accordi dissonanti che tuttavia non intaccano il linguaggio tradizionale. E così il mondo intangibile della musica “alta”, anche con l’ultimo brano, la «Piccola Suite», «piccola per durata, ma complessa per forma», ricorda Filippo Arlia, si è avvicinato ai giovani, perché il sentimento della musica, la fiducia nel potere delle note e la sacralità del luogo, tutto ciò sommerge il resto. La musica avvolge mentre svolge, perciò per raggiungere questo obiettivo, complementare e necessaria è stata la narrazione sul palco di Mario Acampa, autore, regista e divulgatore per Rai Ragazzi, conduttore italiano ufficiale del Junior Eurovision Song Contest, che ha raccontato la vita di Francesco Cilea (illustrata per immagini da Gabriele Pino). Dalla fanciullezza vissuta a Palmi alla determinazione del “maestrino”, come fu chiamato, a seguire la sua passione per la musica. Come fosse, con le sue incertezze e le difficoltà, i suoi desideri e le ribellioni, un ragazzo dei nostri giorni (pensiamo ai Maneskin, peraltro intonatissimi e talentuosi, conferma Arlia, oltre ogni polemica), come fosse uno di quelli – aggiunge il maestro – che «dalle bande musicali dei paesi calabresi e siciliani, proprio quelle che ritmano l’uscita dei santi nelle processioni locali», arrivano, per passione e sentimento della musica e studio, all’Accademia alla Scala. Un riconoscimento reciproco, quello tra musica e anima, sempre alla ricerca, sempre inquieto, che permette alla musica classica di reinventarsi e trovare nuove strade. Che tutti possono percorrere, di cui tutti possono godere. Del resto, come diceva Nietzsche, «le passioni, grazie alla musica, godono di se stesse».