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Per fortuna siamo tutti "Mine vaganti": Ozpetek in scena a Messina

Al teatro Vittorio Emanuele una commedia che combina uno sfrenato ritmo comico con un’intensa elegia

Tu, spettatore, sei uno che ride, quando sente una barzelletta «sui ricchioni»? Tu sei uno che ride, se un maschio sculetta sui tacchi, o parla in falsetto? Perché il paradosso della commedia «Mine vaganti» in scena al Teatro Vittorio Emanuele, produzione Nuovo Teatro con Fondazione Teatro della Toscana, tappa d’una lunghissima e trionfale tournée in tutta Italia, prima regia teatrale di Ferzan Ozpetek (e strettamente legato all’omonimo e pluripremiato film del 2010), è proprio questo: si ride molto, il ritmo comico è incalzante e quasi farsesco, e si ride proprio sui più vieti luoghi comuni nel rappresentare l’omosessualità. Si ride quando uno dei protagonisti, un tonante patriarca meridionale – ma è uno spettacolo corale in cui forse il protagonista primo è la famiglia, più che i suoi singoli componenti – cerca di raccontare, appunto, una vecchia barzelletta e viene interrotto dal figlio, che su quello stesso tema ha una cosa, serissima, da comunicare a tutti. Si ride quando, nella casa degli agiati Cantone, “reucci” d’un paese campano immaginario ma non troppo, arrivano gli amici – non omosessuali: proprio drag queen, particolarmente esilaranti nel loro continuo dissimulare eppure ostentare la loro vera identità – del figlio Tommaso, studente di Economia e commercio a Roma, arrivato per fare coming out e zittito… dal coming out del fratello Antonio.

E piano piano, sotto la superficie scoppiettante – e addirittura politicamente scorretta – della commedia, fitta di battute e mossette e fraintendimenti, s’infiltra il tema vero, il tono elegiaco che prenderà il sopravvento e capovolgerà le emozioni, in scena e fuori. Perché il punto non è quanto sia accettabile, oggi, in certi ambienti tradizionalisti l’omosessualità (che poi, come si vede in scena, può essere vissuta, mostrata, ignorata, rifiutata o accettata nei modi più diversi), ma quanto sia sempre arduo, e richieda sempre molto coraggio e molto amore, rispettare la libertà di scegliere e di realizzarci, nostra e degli altri, quanto sia difficile essere amati e amare, accettarci nella nostra fragilità. E allora “mina vagante” è ciascuno di noi, per fortuna: ciascuno di noi può fare saltare l’ingranaggio perverso, o il lucchetto della prigione. E benvenuto il caos che polverizza le maschere e le finzioni. Ciascuno di noi può accogliere l’altro nella sua unicità, nella sua bizzarria, nella sua “normalità eccezionale” («Normalità, che brutta parola», dice in scena nonna Cantone): i membri della famiglia sono tutti portatori d’una qualche eccentricità, d’una vena di follia che in realtà è salvifica. La zia “strana” (Sarah Falanga) che ama troppo la bottiglia ma che sa vedere ciò che altri non vedono, la mamma Stefania (una divertentissima Iaia Forte, macchina da guerra dei tempi comici e perfetta, straripante mamma meridionale, più volte applaudita) conformista sì ma con un cuore troppo grande per chiudere fuori davvero un figlio «che ha sbagliato», lo stesso patriarca (Francesco Pannofino totalmente a suo agio e visibilmente amatissimo da un pubblico trasversale) così spasmodicamente preoccupato dell’ “occhio sociale” (sì, siamo noi spettatori a fornirlo gentilmente, nelle frequenti incursioni dei protagonisti in platea e comunque bucando la quarta parete con battute e ammiccamenti), l’indispensabile domestica Teresa che un poco sfotte un poco collude e molto ama (una strepitosa Mimma Lovoi), i due fratelli, diversissimi ma simili (molto bravi Erik Tonelli e Carmine Recano) e, su tutti, la nonna (l’intensa e delicata Simona Marchini) portatrice d’una sapienza del cuore che può ammansire ogni belva, e che s’incarica di sciogliere, a suo modo, la vicenda e ristabilire l’armonia. Concorrono al mood generale i due amici drag queen (Francesco Maggi e Jacopo Sorbini, accuratamente sopra le righe) e il compagno di Tommaso (lo scultoreo Luca Pantini).

In una scena in cui il gioco di tende che scorrono (di Luigi Ferrigno) e di luci (di Pasquale Mari) crea efficacemente tutti gli ambienti, interni ed esterni, senza mai perdere la sensazione di moto perpetuo, con abiti (di Alessandro Lai) sgargianti come gli eccessivi personaggi (con la sola eccezione della sobria e charmante Alba-Roberta Astuti), una colonna sonora saporitissima (molto bello il tango, dove l’elemento sensuale si evoca e si dissipa, tra Tommaso e Alba, sulle note di «Mil pasos» di Soha, brano caro al regista, con la sua contaminazione di lingue, ritmi e generi, e poi la canzone collettiva «Una notte a Napoli», di Pink Martini), la costruzione comica avrà il suo movimentato vertice nel divertente spettacolo delle drag queen (più un’imprevedibile aggiunta), per poi sciogliersi – secondo lo specifico del teatro (che «nasconde ciò che il cinema mostra», come puntualizza Ozpetek) – in una deliziosa, agrodolce elegia che liquida ogni ombra di politicamente scorretto e rimette a posto i sentimenti di tutti. Spettatori inclusi.
Grandi e meritati applausi. Si replica oggi alle 17.30.

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