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Noi, profughi in questo mondo. Il nuovo romanzo di Rosella Postorino

La storia d’un gruppo di bambini di Sarajevo, in Italia per sottrarsi alla guerra. Ma non ci si sottrae alla ferita d’essere nati, sempre espatriati dal corpo materno

Si sarebbe tentati, davanti alle vicende di Omar, Nada, Danilo, Sen, Jagoda – i protagonisti dell’ultimo, rovente romanzo di Rosella Postorino, «Mi limitavo ad amare te» (Feltrinelli), in libreria da oggi – , di dare la colpa alla guerra, allo sradicamento, alla condizione di cittadini della Sarajevo che brucia, senza acqua senza cibo senza corrente senza futuro, e di profughi dopo. E invece no. Non c’è colpa, ma non c’è nemmeno innocenza. O c’è un’innocenza piena di colpe, e una colpevolezza innocentissima, ma non ad essere Omar, Nada, Danilo, Sen, Jagoda – figli variamente accolti e respinti, protetti ed esposti, voluti e disvoluti, amati e disamati – . Piuttosto, ad essere umani. Accomunati dalla condizione universale: siamo tutti mortali, siamo tutti figli. E quello che mettiamo a fuoco, e ci turba – che la qualità principale dei romanzi di Rosella Postorino, calabrese di Reggio, vincitrice del Campiello, e una messe di altri premi, col best seller internazionale “Le assaggiatrici” (Feltrinelli, 2018), è turbare, spalancare domande, in un modo chirurgico eppure profondamente poetico – non è la dialettica tra vita e morte, semmai la loro profonda interdipendenza e il nostro scacco, di noi che crediamo di nascere dall’amore e nell’amore: «Siamo tutti scagliati nel mondo verso la possibilità della morte – è all’origine del creato, la mancanza d’amore».
Allora, per quanto esatta e vasta sia la sua ricostruzione della tragedia epocale della guerra bosniaca, e della storia di quel pugno di bambini, non tutti orfani (ma vedremo che, nella varietà di relazioni possibili tra madri e padri e figli, ci sono modi di essere orfani avendo i genitori, e modi di non esserlo pure se i genitori sono scomparsi), portati in Italia “temporaneamente” e poi rimasti, dapprima in istituto e poi in famiglie affidatarie, capiamo che non è quello il fuoco. Ma tutto quel fuoco – letteralmente, quello degli incendi, delle bombe, dei proiettili dei cecchini – serve a proiettare, da uno scenario estremo, l’ombra lunga di vicende universali, eterne, intime e assolute. Che tutte ci toccano, in quanto figli, in quanto profughi dopo lo «strappo» della nascita.
È un romanzo che è anche un trattato sulla maternità, sui legami, sul corpo come nodo e simbolo, come conseguenza di carne e ossa di ciò che, accidentalmente e dolo(ro)samente, siamo: il corpo che fabbrica corpi e che mette le distanze tra i corpi. È un romanzo che è anche un atlante di separazioni, un goniometro di lontananze e prossimità. Che passa attraverso indicibili violenze e tenerezze ancora più spaesanti.
È un romanzo che prende molti anni (dal 1992, alla partenza di un pullman di bambini dalla città in guerra verso l’Italia, al 2011), ma in fondo è compresso in un pugno di scene indimenticabili, per metà a Sarajevo per metà in Italia, la nuova patria di tutti i protagonisti (e la patria non è, essa stessa, un immenso corpo materno, e chi è profugo dunque lascia la madre per ben due volte?), seguendo, concentrando le storie di bambini ed ex bambini, che s’intrecciano e restano intrecciate malgrado le distanze, il tempo, le scelte e i casi (come essere figli, come essere padri e madri: legami che ci legano oltre i corpi e le distanze e gli accadimenti, oltre le nostre stesse volontà). Il bambino che quasi non mangia, si nutre di attese e soprassalti (e in una città in cui esplodono granate a ogni angolo, in cui c’è un orfanotrofio traboccante di bambini abbandonati, «ciascuno solo con il proprio rischio di crollare», questo diventa una specie di natura); la bambina senza un anulare, con una vena a forma di incognita sulla fronte e un nome che in una lingua significa «niente» e in un’altra «speranza» (e quale sia la lingua giusta è impossibile da sapere, come tutto il resto: forse sono vere entrambe le cose, come sempre nella scrittura di Rosella Postorino); il ragazzino allontanato dalla famiglia per essere protetto ma che si sente per questo escluso (e forse sono vere entrambe le cose), che è sincero quando fa promesse ed è sincero quando le tradisce; la bambina che comincia a balbettare dopo una notte di paura, e la cui «forma di egoismo» è occuparsi di qualcuno. E tutte le loro madri, che per quanto vicine sfuggono, o per quanto lontane sono sempre recuperate, anelate, ritornate (perché «dalla madre, chi ti salva?» dice in esergo Elsa Morante). Sono sempre, le madri, il corpo da cui non si riesce ad espatriare.
E allora Sarajevo è ogni infanzia dissipata, ogni promessa tradita, ogni madre assente o sparita per colpa o negligenza o vigliaccheria o anche solo errore umano, troppo umano, ogni fratello che ti volta le spalle solo perché sta cercando di sopravvivere a modo suo, ogni amore fuori sincrono; anche se chi ha avuto davvero una Sarajevo nell’infanzia ha sofferto più di tutti, senza che questo lo renda migliore o peggiore, solo più sfortunato. La felicità, d’altronde, è un ben ingannevole mito: «Se non pensassimo di dover essere felici a tutti i costi, se non pensassimo che lo scopo è la felicità, come se fossimo nati per realizzarlo, accetteremmo la differenza con meno disonore, meno rabbia, con meno bisogno di capire».
Infine, quando un nuovo anello s’unisce all’inarrestabile catena, un bambino che si chiama Nino e il cui miglior amico è uno Scarafaggio (che colpa ha, lo scarafaggio, d’essere come è? Che merito ha, di poter volare? Mamma scarafaggia – che è l’esempio proverbiale dell’amore materno che nulla chiede e tutto sembra valorizzare – lo ama perché è suo, perché non può fare altro, ma lo amerebbe perché è lui? Lo saprebbe, chi e cosa è lui? «Non si erano scelti, erano stati condannati l’uno all’altra»: esiste, un modo di essere che sia totalmente fuori dallo sguardo delle madri? Potrebbe mai esistere, un mondo senza madri?), nulla si conclude ma tutto ricomincia, nessuno si perdona ma tutto si continua. Le ferite non si chiudono mai, eppure non si muore, ci si costruisce attorno alle cicatrici, attorno alle mancanze – e alla fine chi lo sa se sono quelle, le pienezze che ci toccano. Se non possiamo fare nulla per non piangere, ma qualcuno, qualcosa saprà raccogliere le nostre lacrime.
Sapere che non c’è salvezza forse ci salva, se qualcuno sa raccontarcelo con questa forza.

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