Martedì 03 Dicembre 2024

A colloquio con Gian Marco Griffi: da Ariosto all’Horcynus Orca

Gian Marco Griffi

«Il Premio Strega sarà una grande avventura. Da outsider entro in gioco nel premio letterario più ambito in Italia, deciso a godermela». Lo sappiamo, per questioni di marketing (e di anticipi versati agli scrittori) fin troppo spesso si grida al capolavoro. E ogni giorno vengono pubblicati centinaia di romanzi con un ciclo vitale sempre più striminzito e frustrante. Ma talvolta accade che la fortuna di un libro cominci dal passaparola di lettori entusiasti, che supera le logiche e i recinti del mercato e crei un vero e proprio “caso letterario”. Così è stato per «Ferrovie del Messico» (Laurana editore) firmato da Gian Marco Griffi, di Alessandria, classe ’76. Un titolo della piccola editoria pubblicato lo scorso luglio, fresco vincitore del Premio Mastercard, eletto libro dell’anno per la trasmissione radiofonica Fahrenheit, con i diritti di traduzione già venduti in Germania. Romanzo fluviale da 824 pagine che mescola avventura, storia e atmosfere fantastiche – divagando fra storie collaterali, novelle, sogni, lettere, visioni – ispirandosi apertamente all’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo narrando l’epopea di Cesco Magetti, un 23enne che nel 1944, durante la Repubblica di Salò, non trova la forza per ribellarsi al regime che gli affida la missione improba e surreale di realizzare una piantina delle ferrovie del Messico, esaudendo i desideri del Führer, poiché al termine dei binari si troverebbe l’Arma definitiva. Con uno stile capace di sferzare, Griffi sa far commuovere i lettori al cospetto della crudeltà nazista e al contempo dileggia la dittatura e la sua banalità mortifera. «In un panorama letterario come quello italiano, che sembra oggi dividersi tra il racconto quasi giornalistico di “storie vere”, possibilmente tragiche, e il rimuginamento sull’eterna crisi della famiglia borghese, Ferrovie del Messico si staglia con un’originalità che merita di essere segnalata». Così, Alessandro Barbero l’ha proposta allo Strega. Ne parliamo con l’autore. Sorpreso? «In casa editrice non mi avevano detto nulla e sì, le parole di Alessandro Barbero per il mio romanzo mi hanno davvero sorpreso». Spesso si dice che i premi siano dominati dai “salotti” eppure il suo romanzo ha già vinto prestigiosi riconoscimenti. Qual è il suo punto di forza? «Alle spalle di questo libro c’è il fermo desiderio di contrastare l’uniformità di registro della maggioranza dei romanzi contemporanei. Una scelta di sopravvivenza. Credo che la scrittura debba ricercare apertamente la complessità della lingua, altrimenti verrà soppiantata dall’immediatezza delle serie tv e del cinema». Giulio Mozzi, il direttore della collana Fremen per Laurana, il primo a credere nel suo libro, ha rivelato che il manoscritto iniziale era di circa duemila pagine. Com’è andata? «Inizialmente pensavo ad un’opera in tre parti e durante la pandemia scrivevo otto ore al giorno, con l’intento di coprire tutta la vita del protagonista. Ma quando Mozzi ha letto la prima parte, già bella corposa, ci siamo resi conto che poteva essere un romanzo autoconclusivo. Venivo da due libri – “Più segreti degli angeli sono i suicidi” (BookaBook, 2019) e “Inciampi” (Arcadia, 2019) – che non si era filato nessuno, per cui mi sono sentito libero di osare, ma non avrei mai immaginato tanto clamore». L’hanno paragonata a Roberto Bolaño. Che ne pensa? «Bolaño mi piace. Ma mi sono ispirato a Gadda e Manganelli, all’Ulisse di Joyce per la sua epica picaresca, all’Orlando Furioso e all’Horcynus Orca perché nel progetto iniziale Cesco, dopo un esilio di cinquant’anni, sarebbe tornato ad Asti, riabbracciando la sua lingua madre, tornando alle origini di tutto». Lo scrittore Marco Drago firma la postfazione, sottolineando: «Se la trama da seguire è semplice, Griffi riesce nell’intento di trasformarla in un’epica tragicomi- ca che genera storie su storie, tanto che a un certo punto il lettore si rende conto (non senza un certo sgomento) che, volendo, il libro potrebbe non finire mai». Ma è vero che tutto nasce da un aneddoto su Proust? «Assolutamente. Proust amava giocare in borsa e fra le sue azioni c’erano le ferrovie del Tanganica, le miniere d’oro australiane e le ferrovie del Messico. Il titolo azionario su cui investiva l’autore della Recherche è diventato il titolo del mio romanzo e mi ha dato il fil-rouge per unire tutte le storie che ruotano attorno a Cesco». Nelle 824 pagine lei racconta anche le vite travolte dalla violenza del regime. Perché? «Volevo unire il racconto della sofferenza del popolo durante la Repubblica di Salò alla ricerca linguistica. Per raccontare una storia con una pluralità di punti di vista e di registi, ho creato un mosaico di vite degli ultimi, di poveracci travolti dal male, divenuti protagonisti della storia a proprie spese». Fra racconti e divagazioni, irride il nazismo, la sua cieca burocrazia. Il potere e la dittatura possono essere combattuti anche con una sferzante ironia? «Sì, ne sono convinto. Ho scelto di prendere in giro la dittatura e il Terzo Reich, credo sia una chiave interpretativa della mia scrittura e del mio modo di pensare. In un capitolo ho provato ad immaginare l’intimità di Hitler ed Eva Braun – andando incontro ad un dilemma etico morale – per poi partire con un feroce dileggio, contrastando apertamente la banalità del male, come una farsa alla Ionesco». Cesco non trova la forza d’animo per fare come Firmino, l’amico partigiano. Non crede nel fascismo ma non si ribella. Proprio la sua debolezza lo rende umano? «Leggendo della Resistenza sappiamo che sono stati dalla parte giusta della Storia. Ma inevitabilmente ci si chiede: io, cos’avrei fatto al suo posto? Avrei avuto la forza di ribellarmi alla Repubblica di Salò, pur non credendo assolutamente al fascismo? Certo, con il senno di poi è facile proclamarsi eroi e dire che avremmo preso le armi ma Cesco non riesce a trovare la forza necessaria. Sono sincero, mi sento molto vicino alla sua fragilità, alla necessità di cercare un compromesso pur di salvarsi la vita».

leggi l'articolo completo