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Se la famiglia mafiosa è qualcosa da cui non si può uscire mai

Il romanzo del giornalista Alessio Zucchini

La famiglia clanica. Il cuore pulsante della ’ndrangheta vive nella comunità parentale che diventa all’occorrenza  falange militare per proteggere gl’investimenti, difendere l’ “onore” e il territorio, conquistare nuovi spazi. I componenti del nucleo originario della cosca si trasformano anche in strumenti utili a  siglare patti e alleanze con altre consorterie grazie a comparaggi e matrimoni. Gli uomini e le donne legati da vincoli di sangue giocano, insomma, ruoli determinanti nella mafia calabrese. Una mafia che Alessio Zucchini, giornalista e conduttore del Tg1, racconta svelandone le diaboliche dinamiche in un romanzo avvincente – “Una famiglia” pubblicato dalla Mondadori – che ruota intorno alla vita di una “predestinata”: Paola, figlia del boss Domenico La Paglia che, lasciata la regione d’origine per il mondo milanese della moda, è costretta a tornare a casa per via dell’assassinio del fratello Matteo.
Il corpo, i pensieri, le scelte della protagonista consentono all’autore di esplorare la moderna arcaicità (l’ossimoro è dovuto e calzante) sfruttata da giovani e vecchi capibastone, per accumulare fortune.
Il narcotraffico, le estorsioni, il traffico di rifiuti tossici, il riciclaggio compaiono nell’esistenza della donna quando è costretta a fare i conti con il dolore cagionato dalla perdita del germano, assassinato in modo eclatante all’interno di una pizzeria sventrata da un ordigno. Paola rientra a Pietranera – questo il nome immaginario scelto dallo scrittore – per partecipare al funerale e poi decide di restare. La voglia di vendetta – spesso accennata dal Maestro di San Luca, Corrado Alvaro – anima la fase luttuosa della vita della protagonista che per anni aveva creduto d’essere ormai sfuggita alle logiche perverse della subcultura ’ndranghetistica.
L’odore del sangue e la puzza di polvere da sparo la riportano invece alle radici, animando quell’ancestrale istinto-sentimento di rivalsa violenta che caratterizza il mondo oscuro di certi contesti. Paola si riscopre simile al padre, Domenico, al fratello, Santo, ed ai personaggi sinistri come il fido Caboto che tanto ricorda il Luca Brasi descritto da Mario Puzo ne “Il Padrino”.
La scrittura fluente, il ritmo avvincente dell’opera di Zucchini rivelano tradimenti impensabili e “traggedie” (così, con doppia consonante vengono indicate nel gergo criminal-mafioso certe inconfessabili strategie) che popolano l’esistenza di cosche feroci e potenti, attive da più d’un secolo nell'ultimo lembo di terra dello Stivale.
La protagonista, dopo l’iniziale rigetto per quella mentalità da cui s’era allontanata – «Dimmi come si vive nel Medioevo. Dimmi chi bisogna scomodare per avere giustizia. Dimmi chi comanda, chi decide, chi uccide» – si lancia nella costruzione d’una ragnatela funzionale a individuare, imprigionare e punire i responsabili della uccisione di Matteo.
L’autore, con abile capacità narrativa, s’addentra tra i luoghi d’una regione che conosce per esservi stato da inviato della maggiore testata giornalistica pubblica, cogliendone la bellezza naturale, i profumi del vento, le tante sfumature che arricchiscono la struttura del romanzo.
Il lettore si ritroverà a Scilla, lungo la Costa viola; a Gioia Tauro, dentro l’immenso porto sorto a discapito di meravigliose piantagioni di agrumi; davanti al castello aragonese di Reggio e tra le balze e i contrafforti aspromontani, passando per le arse aree costiere della Locride. Durante il viaggio incontrerà un magistrato corrotto, la riunione dei padrini indetta al cospetto d’un Santuario ( il richiamo è a Polsi), la rivolta dei migranti scoppiata a Rosarno e la crudeltà di padrini e reggipanza capaci d’ogni nefandezze pur di conservare il loro illegale potere.
Paola, alla fine, otterrà ciò che vuole. Come? Facendo arrestare il fratello Santo che ha appena siglato la pace con i rivali. Alle manette scamperà l’anziano padre, morto per cause naturali – come tanti importanti capibastone calabresi – in un casolare in cui si isolava per sfuggire alle angosce determinate dal tanto male seminato.

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