«Qui è cambiato tutto e tuttavia non è cambiato niente», così dice il signor Sandro che mi accoglie nella sua bottega di marmista al civico 53, nel cuore di via Margutta, rione Campo Marzio, Roma. «Benvenuti» e «La grande bellezza sei solo tu» recitano alcune tra le tante targhe di marmo, con incisi motti e modi di dire, affastellate dappertutto nel locale. Mabenché, come si legge ancora, «Sta via Margutta in fonno non ha gnente de speciale benché non sia però né bella né brutta, trovame ar monno un’artra strada uguale», questa via stretta e appartata, alle spalle della sofisticata e modaiola via del Babuino, è la strada storica degli artisti di ieri e di oggi. E il numero civico 53, A e B,è lo stesso del palazzo di Studi di Pittura e Scultura e degli Studi Patrizi, fatti adibire nel 1858 per gli artisti dal marchese Francesco Patrizi e dove, tra i numerosi e celebri Maestri che animarono quel luogo, Pablo Picasso nel 1917 realizzò nel suo atelier alcuni suoi capolavori.
Basta questo per farne una strada da sogno o sognata come recita «La strada sognata» (Einaudi), il bel romanzo d’esordio di Valeria Della Valle, illustre linguista e italianista, accademica della Crusca, redattrice e coordinatrice scientifica del vocabolario Treccani, autrice di testi scientifici e divulgativi. Un racconto “fotografico” il suo, che le è valso il Premio Settembrini 2022, un piccolo atlante di storie perdute, con «personaggi ispirati da persone realmente vissute – dice l’autrice – e altri di finzione ma che avevano le caratteristiche di persone di cui avevo sentito raccontare le storie o balzati da un ritratto, un volto intravisto nella folla, un ricordo».
«Vedo ancora – continua la Della Valle – dalle mie finestre che si affacciano sul Tevere i tetti, gli studi, gli alberi di via Margutta. Nel mio libro ho cercato di “far vedere” anche ai lettori e alle lettrici quella parte nascosta della città, che molti non conoscono: gli studi con i lucernari, le scalette che si arrampicano fino al Pincio, i cortili con le fontane e le statue, e sullo sfondo la bellissima Villa Medici».
Un romanzo intessuto di racconti, nato per «conservare la memoria di un luogo, di una cultura, di un modo di vivere libero e privo di pregiudizi e conformismo, prima che se ne perda del tutto il ricordo. In fondo, ho continuato a fare lo stesso lavoro che ho sempre fatto, cioè conservare le parole nei dizionari della lingua italiana. In questo caso ho usato le parole per dare vita e voce a chi non c’è più».
Via Margutta, una strada sognata. Da Livia e Adele, i bei personaggi femminili del suo libro o anche da lei?
«Quella strada per me è stata una strada vissuta, più che sognata. Sono nata lì e ho fatto in tempo a conoscerne le atmosfere, i giardini segreti, i cortili, e soprattutto gli studi nei quali artisti e artigiani lavoravano: una comunità che aveva scelto di vivere in una strada del centro che era ed è un po’ appartata, isolata e silenziosa».
Strada sognata e rimpianta di una Roma forse perduta...
«Una strada sicuramente rimpianta per come era, per quello che ha rappresentato, per la storia delle persone straordinarie che sono vissute lì e che lì hanno composto le proprie opere: pittori e pittrici, musicisti, scrittrici, registi, ma anche antiquari, restauratori, corniciai, fotografi d’arte. Quel mondo scomparso, travolto dalla speculazione e dal consumismo, ma la bellezza e l’incanto di quell’isola appartata è rimasta e rimarrà per sempre, spero».
Perché per il suo primo romanzo ha iniziato da via Margutta?
«Perché ho voluto raccontare una storia che conoscevo bene: come ha detto Natalia Ginzburg, ci sono persone che sanno raccontare bene solo quello che conoscono a fondo. Ho raccontato una storia familiare ma anche la storia delle persone che avevo conosciuto nell’infanzia o di cui avevo sentito parlare: storie a volte drammatiche, o anche storie semplici, di vita quotidiana, che mi hanno dato lo spunto per inventarne altre: soprattutto storie di artiste che non hanno avuto fiducia nella loro arte e nelle loro capacità. Il mio è stato il tentativo di dare voce a quelle persone scomparse, per far rivivere il loro mondo, i loro ideali, il loro amore per l’arte».
Gli anni bui del fascismo rimangono in controluce, filtrati dallo sguardo lieve di Livia. In effetti, la luce di Roma, e le ombre, della storia e delle storie intime, caratterizzano i suoi racconti in chiaroscuro.
«Ho cercato di scrivere servendomi di una lingua semplice: mi sembra che sia meglio raccontare le storie, e anche la Storia, evitando gli effetti speciali e i colpi di scena. Ho preferito ricostruire quegli anni difficili attraverso gli occhi del personaggio di Livia: come molti italiani e italiane del tempo non si rendeva conto del dramma storico che si stava consumando intorno a lei, e viveva indifferente, concentrata solo sul proprio dolore di ragazza cresciuta in una famiglia sbagliata. Ma proprio attraverso l’arte Livia acquista la consapevolezza della realtà che da lì a poco travolgerà tutti, con l’entrata dell’Italia in guerra».
E insieme a Livia c’è un’altra voce narrante, sua figlia Adele, Dede, che nello studio delle parole trova il senso della sua vita. E le raccoglie, le studia e dunque racconta.
«In Dede ho cercato di raccontare un po’ me stessa, il mio lavoro dedicato alla lingua italiana e alle parole. Un lavoro che non finisce mai (il nostro ultimo dizionario è stato pubblicato da poco, dalla Treccani) e che nel mio caso è diventato totalizzante, ha preso tutto il mio tempo. Anche quello che forse avrei potuto dedicare alle storie della “Strada sognata”, che sono rimaste nel cassetto per tanti anni perché mi pareva che non valesse la pena di raccontarle».
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