Avedersi niente è più nitido di un dipinto di Felice Casorati. Apparentemente tutto è chiaro, non ci sono da fare interpretazioni figurative davanti ad “architetture” così precise ed evidenti: una donna è una donna, un nudo è un nudo, le nature morte sono nature morte, un luogo (spesso il suo prediletto studio torinese) è un luogo e così via. E invece no, nella sostanza tutto è misterioso, perché in quelle immagini c’è sempre una sospensione di tempo e di senso, una musica che suona pur se non la si sente. Già, si può vedere la musica? Nel caso di Casorati (Novara, 1883 – Torino, 1963) la risposta è sì, purché si entri in quei luoghi dell’anima (più che dello spirito), che sono la maggior parte delle sue opere, con l’intenzione di ascoltare oltre che di vedere, di accettare quell’attimo-non attimo, un momento in cui la vita si è fermata (chissà, forse alla ricerca di qualche perché). Concetti che erano conseguenza (o premessa) del suo modo di approcciarsi alla pittura. Lo spiegava lui stesso, come ricorda Daniela Ferrari, nell’autopresentazione alla Quadriennale romana del 1931: tutto nasceva «dall’interno: nessuna impressione ma l’esigenza di comporre rispettando un ordine intrinseco alla dimensione pittorica, prestando attenzione al “valore della forma, dei piani, dei volumi, ottenuto per mezzo di un colore tonale non realistico” al fine di concepire “l’architettura di un quadro, in senso peraltro musicale o lirico e non decorativo e puramente formale».
Del resto, nella vita di Casorati la musica è stata fondamentale: pianista di sicuro avvenire, ma dedito oltre ogni limite allo studio, fu fermato adolescente da un esaurimento nervoso. Mandato dalla famiglia in villeggiatura, il padre gli regalò pennelli e tavolozza per meglio trascorrere il tempo. Una circostanza che gli cambiò l’esistenza, facendone un pittore di valore assoluto (si definiva autodidatta) senza che per questo dimenticasse mai la musica. Continuò a suonare, ogni giorno, e pianoforte e studio convivevano uno accanto all’altro nella sua casa torinese, fino a trasmutarsi assai spesso l’uno nell’altro.
Dopo Kandinskij, Casorati è stato l’artista a muoversi maggiormente su questa strada sinestetica che “confonde” suoni e immagini. Una “parentela” che riconosceva, anche se non fu mai tentato dalla strada dell’astrazione indicata dal pittore russo, ma possiamo dire che questa è solo una questione di forma e non di sostanza, perché l’astrazione è presente, eccome, nell’opera dell’italiano: non è quella del segno, ma l’altra dei significato, o meglio della raffigurazione di una realtà-non realtà, capace di andare sempre oltre l’ordinarietà del quotidiano.
Proprio in questa chiave tra pittura e musica, ben rappresentata dalla scelta dell’opera “Concerto” come logo, e realizzata in un percorso esaustivo che raggruppa oltre 70 opere, è stata allestita «Felice Casorati. Il concerto della pittura», mostra antologica a cura di Giorgina Bertolino, Daniela Ferrari e Stefano Raffi, ospitata fino al 2 luglio nei locali della Fondazione Magnani Rocca a Mamiano di Traversetolo (a pochi passi da Parma), che l’organizza in collaborazione con il Mart – Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto.
Anche se non premiata da un allestimento fin troppo basico, la mostra racconta per intero la parabola creativa di Casorati, fin dalle prime opere come «Ritratto di signora» (la sorella Elvira), con cui partecipò per la prima volta alla Biennale nel 1907, e «Le ereditiere», che sono di assoluta perfezione formale e che già, con un sapientissimo uso del nero, rappresentano le basi della futura evoluzione su una tavolozza di colori inconsueti, quasi freddi e sostanzialmente descrittivi del pensiero. A fronte di queste, «Le bambine» e «Le vecchie», che poi si riassumono nel successivo «Le signorine», presentano figurazioni classicheggianti, che dal Quattrocento e Cinquecento italiano si spostano verso Klimt, l’unico di cui talvolta si avverte l’influenza. Ma non bisogna farsi trarre in inganno: certi sguardi inquieti e un acceso simbolismo portano già che quello che possiamo definire – con termine teatrale – uno straniamento.
Non è possibile raccontare l’intero percorso espositivo anche se non c’è una sola opera (l’aggettivo per quasi tutte è sublimi) che non meriti una sosta. Si deve, però, fermare l’attenzione almeno su tre dipinti, peraltro famosi: «Ritratto di Maria Anna De Lisi» (1919), «Silvana Cenni» (1922) e «Conversazione platonica» (1925), legate anche a quel periodo pittorico italiano, mai sfociato in corrente dichiarata, che fu il “realismo magico”.
De Lisi e Cenni sono personaggi inventati, la rappresentazione più autentica di quella “sospensione” di tempo e di luogo di cui si diceva all’inizio. Tutto è immobile, a correre è il pensiero. O forse, anche, i pennelli colgono l’attimo in cui tutto sta per cambiare: non dimentichiamo che il suicidio del padre, nel 1917, ha segnato una svolta improvvisa e dolorosa nella vita di Casorati. Quei due ritratti potrebbero quindi essere il momento del discrimine, un passaggio quasi da una vita a un’altra, la raffigurazione della cesura.
«Conversazione platonica», in cui un uomo interamente vestito fino al cappello guarda una donna completamente nuda distesa su un letto, ci porta verso l’idea di una speculazione filosofica, una sorta di ricerca sul perché dell’armonia (ancora evocato un termine musicale!) rappresentata dalla donna. È come se la continua girandola vissuta da Casorati in tantissime città, al seguito del padre ufficiale, o anche i richiami agli antenati matematici e scienziati, tutto fosse convenuto in quell’uomo vestito e perplesso che si ferma (finalmente!) davanti alla visione dell’arte. Nuda perché non ha bisogno di aggiungere nulla a se stessa.
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