Forse niente è più utile che applicare al mondo dell’informazione le leggi fisiche delle transizioni di fase: non siamo più ciò che eravamo e non siamo ancora ciò che vorremmo essere. Con la paziente e lucida ricostruzione delle vicende editoriali italiane, che si agitano su un backstage ricostruito col grandangolo, Paolo Panerai, col suo libro «Le mani sull’informazione» (ed. Solferino), fa una fotografia scrupolosa e intellettualmente onesta dei pregi e dei difetti di un universo troppo spesso mitizzato. L’approccio dell’autore, nella prima parte, è sistematico, quasi storiografico, condito però da una brillante vena narrativa, capace di collegare eventi, personaggi, fenomeni sociali e sviluppi economici e finanziari del nostro Paese. Così l’editoria accompagna la tumultuosa, anzi, disordinata, crescita dell’Italia del “boom”, influenzandola e facendosi influenzare. Come in un gioco di specchi che, troppo spesso, finiscono anche per deformare la realtà che vorrebbero raccontare. Così, fare la storia dei grandi giornali nazionali, tutto sommato, significa fare la nostra storia, quella di una società che si sviluppa scavalcando tutti quelli che restano indietro. Significa anche proporre lo spaccato di una politica cinica e avida di consensi a buon mercato e, soprattutto, dimostrare l’esistenza di un’economia schizoide, dove l’anima buona dell’impresa affonda in un capitalismo di cartone, che vive d’intermediazione parassitaria. Un affresco quasi antropologico, insomma, che riverbera, grazie alla grande sagacia di Panerai, l’esistenza di una sottile linea rossa, un fil rouge che lega, quasi invisibilmente, tutti questi settori della vita pubblica. Il mantra sviluppato da Panerai è semplice, ma assolutamente convincente: la correttezza dell’informazione, la sua “genuinità”, è direttamente proporzionale alla “purezza” dell’editore. Mano a mano che la stampa perde questa caratteristica, si deforma inevitabilmente, e il risultato finale è un sistema che non “informa”, ma “forma” i lettori, indirizzandoli, subliminalmente, nella direzione auspicata dalle nuove grandi proprietà. Panerai, con grande dovizia di particolari, a questo punto apre il libro dei ricordi. E traccia, con rara efficacia, la parabola di fallimenti, fusioni, acquisizioni e fondazioni che hanno segnato nell’ultimo mezzo secolo l’editoria della Penisola. «Nella storia dell’informazione italiana – scrive – le mani sui giornali sono state messe da troppi gruppi industriali e finanziari per poter appoggiare o contrastare politici e clientele o, nel caso dei giornali economici e finanziari, per alterare il mercato. È la Repubblica italiana che in ogni caso ci perde, è l’indipendenza dell’informazione che ci rimette. Ora però è finito il tempo in cui i gruppi industriali e finanziari mettono le mani sui giornali conquistando non solo potere verso i politici e verso i cittadini, ma anche utili molto consistenti; il profitto congiunto al potere aveva incentivato il fenomeno. La profonda rivoluzione del digitale – conclude Panerai – ha passato ai cittadini il potere di comunicare direttamente, purtroppo generando la peste delle notizie false». Una riflessione che fa da cornice e inquadra tutta la seconda parte del volume, dedicata alla prepotente affermazione di Internet e di tutti i mezzi di comunicazione OTT, Over-the-Top, da Google a Facebook fino a Twitter. Panerai riesce a ricostruire il fascino e i pericoli di un universo che, in pochi anni, ha rivoluzionato la capacità di informare e di informarsi. E che, come tutte le cose dall’appeal irresistibile, si porta appresso i rischi derivanti da un uso improprio o, peggio, mirato sul fascino dell’onnipotenza tecnologica. Come un moloch insaziabile, oggi la digitalizzazione ingoia tutto, senza riguardo per l’etica, la tradizione, la cultura, i sentimenti. Un giornalismo che viaggi solo lungo gli assi di un linguaggio binario può servire a massimizzare forse le entrate pubblicitarie, ma non la conoscenza. Certamente non serve a custodire e promuovere il culto della democrazia. «E se il progresso non è mai anomalia e danno – scrive ancora Panerai – è necessario tuttavia che le rivoluzioni industriali e tecnologiche siano controllate, per non sconfinare nello strapotere di chi ne è protagonista. Figuriamoci se ciò non vale per il servizio più fondamentale e utile alla vita democratica». Arriva, a questo punto, l’elegia del New York Times, ovvero come la carta stampata (prestigiosa) ha sfidato la rivoluzione digitale sul suo terreno, difendendo strenuamente la sua fetta di mercato. Panerai ne fa la metafora di una battaglia titanica, per la sopravvivenza di una cultura dell’informazione che non vuole abbassare la testa, di fronte al rullo compressore della tecnologia informatica. Sembra una pagina del “Mondo perduto” di Sir Arthur Conan Doyle. Con la differenza che qui i dinosauri del passato non finiscono nei musei di scienze naturali, no. Risorgono, rigenerati, a nuova vita, dando un senso compiuto a secoli di tradizione democratica, che non può affogare nel business. La chiave, dice Panerai, è la transizione gestionale del “Times”, con l’arrivo nel 2012 di Marc Thompson, «che ha guidato una drammatica trasformazione della storica istituzione, in un marchio di notizie incentrato sul digitale». E i numeri parlano chiaro. In quest’arco di tempo, gli abbonati “digitali” sono saliti da 500 mila a 5,7 milioni, mentre i ricavi conseguiti solo da questo settore, fino al 2019, toccavano i 450 milioni di dollari. Panerai riporta gli estratti di una lunga conversazione che Thompson ha avuto con i senior partner di McKinsey Publishing. Il CEO di Times Company ripercorre tutte le vicende della rivoluzione digitale del giornale e ne esalta le caratteristiche di “unicità”. Beh, diciamocelo francamente, in questo forse si fa prendere un po’ troppo la mano. E anche il cuore. «Quindi, ciò che è interessante per me – dice Thompson – è che il contesto competitivo del Times è stranamente sottile. Abbiamo 1750 giornalisti che lavorano con il cuore, cercando di produrre il miglior giornalismo del mondo. Non sono in molti a farlo. E, onestamente, se si guarda al prossimo decennio, potrebbe essere che tra dieci anni ci saranno meno concorrenti». Non siamo d’accordo. Ferma restando la brillante intuizione del NYT, di anticipare la rivoluzione digitale, tutt’altra cosa sono i contenuti e la lettura “equilibrata” delle cronache politiche. Nazionali ed estere. Da abbonato di quel giornale, come del Washington Post e di altri prestigiosi quotidiani, posso dire che un’onesta analisi comparativa mostra una qualità media, almeno dello stesso livello, di testate come il Financial Times, il Wall Street Journal, Le Monde o The Guardian. Anche loro hanno brillanti giornalisti, che difendono coraggiosamente la democrazia.