Questo sito contribuisce all’audience di Quotidiano Nazionale

Tradurre? Un lavoro da sherpa o frontalieri... Parla Ottavio Fatica

Da Kipling a Tolkien, viaggio tra gustosi aneddoti di vita, ricordi e incontri definitivi

«Il traduttore è uno sherpa, un frontaliero». Lo afferma Ottavio Fatica, uno dei traduttori più noti che nell’arco di una lunga carriera piena di soddisfazioni è passato da Kipling a Joyce, Beckett e Melville, sino all’ultima, e per alcuni controversa, traduzione de «Il Signore degli Anelli» e oggi ha trovato l’estasi fra le pagine di Céline. Fatica è un vero intellettuale che vive per i libri e si racconta in un delizioso libretto edito da Adelphi – «Lost in Translation» (collana Microgrammi, pp.61 €5) – mescolando ricordi professionali, il primo incontro con Roberto Calasso e aneddoti di vita, dando vita ad un viaggio fra le pagine, sei storie autobiografiche all’insegna della traduzione. Con un sorriso sornione sulle labbra.

Come nacque l’amore per la traduzione?
«Quando tradussi Kipling per la prima volta scattò qualcosa. Avevo già fatto delle prove di traduzione e in generale ho sempre imbrattato i miei libri, traducendo dei pezzetti mentre li leggevo. Kipling l’avevo letto da bambino ma con l’occasione di tradurlo e di curarne una pubblicazione mi rimisi a leggerlo interamente e ne riscoprii un lato intimo e oscuro che diede il via al mio futuro. Sempre nel segno dei libri».

Il mestiere del traduttore, pur se fondamentale, è lungamente rimasto nell’ombra. Oggi, finalmente, alcune case editrici mettono il nome del traduttore in risalto, sta cambiando qualcosa nella percezione del mestiere?
«Piccoli passi in avanti ma necessari. Prima era tutto campato per aria, c’era un lavoro anche oscuro di messa a punto dei testi di cui il lettore sapeva poco o nulla. Con il tempo è cresciuta la consapevolezza del mestiere ma, entrando nell’alveo dell’università, si è anche indottrinato, mettendosi il paraocchi e seguendo delle teorie. La traduttologia mi fa rizzare i capelli ma è un segno dei tempi».

E lei in cosa crede?
«Lo scrittore da una parte, il traduttore dall’altra».

Scrive: «Tradurre vuol dire prendere la testa e spostarla nella lingua che abbiamo alle spalle, che ci spalleggia». È questo tradurre?
«E non solo. Vede, io volevo e non volevo scrivere. Lungo il percorso degli anni ho preso una piega personale, facendo il traduttore, firmando dei saggi e componendo delle poesie. È un mio cammino attorno alla scrittura».

Rivela di essere un lettore armato di matita, scrivendo sulle pagine. Sa che per molti è aberrante?
«Lo so bene. Ma forse non tutti sanno che Umberto Eco scriveva con la penna sulle pagine dei libri. E lo faceva anche sui manoscritti del ‘600. Ecco, io non arrivo a tanto ma a matita li imbratto rendendoli praticamente illeggibili. Inserisco frecce e appunti ma anni dopo, quando li riprendo in mano, ritrovo immediatamente il filo dei ragionamenti».

Qual è il suo rapporto con i libri?
«Ho sempre vissuto a Roma ma ho dovuto lasciare la città dieci anni fa e mi sono trasferito a Narni, per via dei libri».

Ovvero?
«Fra me e mia moglie, con venticinque mila libri, non c’era più posto in casa. Pensi, Giuseppe Pontiggia si era comprato la casa di fronte per metterci dentro i libri, io non potendo fare lo stesso ho preso una casa molto grande, ma adesso iniziano a stare in doppia fila…».

Con il passare del tempo perché si ritraducono alcuni libri? È importante?
«Principalmente perché improvvisamente si liberano i diritti di un autore e pochi giorni dopo è un fiorire di nuove traduzioni e nuove edizioni, non sempre necessarie, ammettiamolo».

Un rimpianto?
«Avrei dovuto fare l’Ulisse per Einaudi ma poi non accadde. Però nel corso degli anni ho tradotto ciò che volevo».

Lei guarda le traduzioni altrui?
«Assolutamente sì. Mi piacciono i lavori ardui, danno soddisfazione e quando arrivo in un passaggio difficile, quando credo di averlo risolto, per curiosità vado a vedere il lavoro altrui. Ecco, se mi accorgo di aver fatto un lavoro troppo simile, riaffronto il testo, magari c’è qualcos’altro da dire».

È accaduto anche per ritradurre Il Signore degli Anelli?
«Lui era un signore molto forbito, una bella prosa. C’è stato un assalto dei suoi fan, oggi il tempo è passato e i nuovi lettori non sanno nulla delle polemiche trascorse».

Cos’è accaduto?
«Alcune frange dei suoi fan si sono messi ad analizzare l’opera, parola per parola, contestando quasi tutto. Il problema è che alcuni lettori nerd avevano una competenza, quasi una venerazione ma conoscevano solo lui. Non Milton o altri autori cui Tolkien faceva riferimento. E poi ci sono i vecchi lettori della Destra che si erano appropriati culturalmente dell’opera e si sono infuriati».

A proposito, Tolkien è un autore di destra?
«Negli anni ’70 Tolkien venne rilanciato da Rusconi con successo, proprio sull’onda della fama americana. In Italia, la sinistra si prese tutti gli autori di destra, da Cline a Hamsun, ma su Tolkien si impuntarono e se lo prese la destra. È andata così».

Caricamento commenti

Commenta la notizia