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Il dolore e la bellezza di Zorro l’eremita: in scena Castellitto

Si affacciano, le sirene dal dipinto di Guttuso, sulla volta del Teatro Vittorio Emanuele di Messina, adesso sono loro attratte dalla parola che arriva da chi si racconta a cielo aperto e le spinge ad ascoltare quel che di folle e di bello c’è nell’umano, come in quel Colapesce a testa in giù verso gli abissi. E anche “Zorro, un eremita sul marciapiede”, su testo di Margaret Mazzantini, prodotto da Angelo Tumminelli, regista e attore unico protagonista Sergio Castellitto (aiuto regia Francesca Primavera), per la sua prima volta a recitare in città, rappresentato al Vittorio Emanuele (fino a oggi) si apre agli abissi. Quelli nei quali affonda il monologo toccante, spiazzante, scritto dalla Mazzantini più di vent’anni fa perché fosse recitato dal marito Sergio.
«Per me questo testo è carne della mia vita – ci dice Castellitto – . Quando Margaret, che sa raccontare le storie con uno sguardo colmo di pietà ma contemporaneamente senza alcuna pietà, quando scriveva, metteva le pagine stampate per terra per vedere se funzionava la sequenza, e poi lo abbiamo messo in scena, la prima volta insieme, con la nostra terza figlia appena nata, che, nel marsupio, partecipava alle prove. Dopo tanti anni, quando durante i mesi del covid mi è ricapitato in mano, io e Margaret abbiamo capito come questa storia fosse ancora emozionante e attuale, perché se c’è una cosa che l’esperienza dell’epidemia ci ha insegnato è la necessità di confrontarsi con la solitudine, con la paura di perdere tutto, e non solo i beni materiali ma anche le relazioni umane che ci tengono legati alla vita».
In giro per l’Italia per una lunga stagione di repliche, è la storia di un uomo che perde tutto, pure il nome, ma, anche quando l’emarginazione gli fa il vuoto attorno, non perde le parole, boe che ci permettono di stare a galla. E “Zorro” spiega il suo gesto di ribellione e di libertà in teatro, dove, come nella poesia, la lingua brucia con la sua fiamma più viva, il luogo più universale che l’essere umano abbia inventato e «infatti sta lì da quattromila anni», dice Castellitto (che alla domanda se ha mai recitato nelle tragedie classiche risponde di essere stato “sfiorato” anni fa da un Creonte in un’Antigone, senza che si realizzasse).
Sulla scena, inondata da un blu polveroso che pare piovere direttamente dal blu di Guttuso, una panchina con sopra un telo isotermico. E da sotto la “coperta”,che diventerà altro nel corso dello spettacolo, incerata da cucina della casa materna che fu, corpo della mamma nel suo giaciglio di morte, la pietosa sorella Nanda, ecco uscire “Zorro”, tra la nebbia (fortemente simbolica) della metropolitana che si spande con il suo afrore in tutta la platea, «una bolla di polvere e luce» – come scrive la Mazzantini nell’introduzione al testo – , quando «cercava una buona idea per il talento d’attore di Sergio ma non solo, qualcosa che desse voce alla sua parte muta».
«Zorro è uno di quei sbrancati attraversatori di città, con le sue miserie, ma anche con un suo umorismo. Uno che ha accettato il suo destino come la cacata di un uccello sulla testa» (scrive la Mazzantini). «E infatti – – aggiunge Castellitto – c’è un’intenzione anche irriverente, dall’osservatorio dal quale egli guarda il mondo cosiddetto dei “normali”».
Vestito con dignità («perché la dignità mica te la danno come una tessera»), ma nudo nella sua fragilità, irrompendo sulla scena dove c’è pochissimo ma si immagina tutto, lì nella strada dove lo scopo è solo vivere, Zorro convoca i suoi fantasmi, da quando bambino viveva la realtà cercando di adeguarla ai suoi sogni. Poi «il destino gli salta addosso», e «quel piano di cristallo sul quale stava tutto, famiglia, amici, amore, lavoro, s’è inclinato in un verso e il piano s’è svuotato, ed è rimasto di traverso».
E mentre appaiono altri oggetti parlanti e vibranti, il guinzaglio che muove nell’immaginazione il cane posseduto un tempo, “Zorro”, anche lui, «un cane alluvionato» «metafora dei traumi, dei tradimenti che quest’uomo ha subito e della sua incapacità a reagire, ma anche della sua nobiltà a non reagire in maniera violenta» – dice Castellitto – , e una ciotola-piatto buona per entrambi, “Zorro” si rivolge ai «cormorani», i borghesi che «c’hanno il sistemino», perché – ricorda Castellitto – «le società in cui viviamo ci hanno consegnato un sistema, e se qualcuno deraglia, in qualche misura ci fa paura. Però ognuno di noi, almeno una volta nella vita, si è sentito un diseredato, e quando ha guardato qualcuno finito in strada non solo per motivi di povertà ma per qualche meccanismo psicologico, così disancorato dalle regole, dai bisogni, dai desideri, in fondo lo ha anche invidiato per un attimo».
Eppure “Zorro”si aggrappa ad attimi di bellezza, al presente che lo circonda, anche al guizzo di umanità colto nello sguardo di chi lo evita. «Certo è una grande sfida quella che lui lancia. Il suo gesto – secondo Castellitto – è di sottrazione, si sottrae dal conflitto della vita, e il pubblico viene come allarmato emotivamente quando si accorge piano piano che sto raccontando la storia di un uomo che all’inizio era come quello che lo sta ascoltando».
E, allora, «on the road, again e per sempre» (come dice il clochard Titì al collega Rico in “Il sole dei morenti” di Jean-Claude Izzo). Un eccezionale Castellitto, che con la potenza della voce e della gestualità accompagnate dalla musica, da Patti Pravo a Iglesias, da Rino Gaetano a Dalla, da Modugno a Cohen, in un certo senso si è riappropriato della propria innocenza di attore, «perché il cinema in qualche modo ti “consuma”, è implosivo, mentre il teatro è esplosivo, quasi “operaio”, il luogo dove risenti, con il piacere della stanchezza fisica, il contatto incredibile col pubblico, un rito “miracoloso” perché ogni sera c’è l’energia del pubblico che con l’umore di ognuno si confronta e si scontra e si mischia all’energia di quest’uomo che là sopra racconta la storia».
Perciò è ottimista per il presente e il futuro del teatro, Castellitto: «Il teatro come tutto lo spettacolo dal vivo, i concerti, la prosa, la musica sono quelli che hanno pagato di più gli anni del covid, ma la gente ha desiderio di riunirsi in questa comunità, pensare che ciò che ha visto lo ha emozionato, divertito, ha insegnato qualcosa. Il teatro è questo, una specie di grande pozzo nel quale ognuno mette una mano e tira fuori qualcosa che lo riguarda».
E ancora, ripensando al dipinto di Guttuso, unico al mondo in un teatro, continua: «Avete un luogo meraviglioso, però è importante capire che la progettualità parte da lontano, che un popolo teatrale non lo costruisci dall’oggi al domani, bisogna lavorare con competenza sui giovani, sulle università, sugli abbonamenti. Il teatro lo deve organizzare chi sa fare il teatro, manager che sappiano come costruire e promuovere stagioni di qualità».

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