A un certo punto l'ultima della fila, nel rigoroso ordine alfabetico che è a suo modo una cosa arbitraria, a cui si dovrebbe resistere inventandosi ogni volta qualcosa, tipo il pantone delle calze, o i segni zodiacali, o i numeri della tombola, ha detto una cosa. La scrittrice Carmen Verde – sul palco del Catania Book Festival, alle Ciminiere, primo incontro dei dodici semifinalisti del Premio Strega col pubblico partendo proprio dal maggio catanese (è la prima volta in Sicilia, un momento davvero storico di cui ringraziare il giovanissimo festival ideato e diretto da Simone Dei Pieri) – ha citato Rossana Rossanda: «La felicità è avere avuto una madre felice». In tante, sopra e sotto il palco, abbiamo sussultato e ci siamo dette: «Ecco! È la rivelazione!». Si sono istantaneamente chiarite due o tre milioni di cose, e questa è roba che ha a che fare profondamente con la letteratura, con l'arte, con quella cosa da sciamani e artigiani assieme che è inventare storie, allineare segni e parole, suscitare ombre e fantasmi e poi esorcizzarli.
Persino quell'Ecate-Madonna del parto-Maga del bel manifesto dello Strega di quest'anno (di Elisa Seitzinger) ha sussultato, e pure 'a Muntagna, azzurra e nevosa là dietro. Che poi, «madre» è stata la parola più detta e sentita, rimbalzava tra le poltrone della sala, le ciminiere di cotto, i libri allineati sui banconi, i ragazzi con gli zaini, i lettori in fila, le poltroncine trasparenti sul palco in cui i dodici stavano allineati come una giuria, come una fila di imputati.
Tutti diversi, per storie, formazioni, scritture, percorsi e vie di fuga, ombre proiettate e ombre gelosamente nascoste. Tutti a dover raccontare in meno di sei minuti il libro che li ha portati lì, sollecitati da due conduttori, i giovani scrittori catanesi Lorena Spampinato e Mattia Insolia, entrambi determinati, lievi, acuti.
Eppure si disegnavano fili sottili nell'aria, legami chimici, cose alate. Apparivano madri, figlie e figli, trasvolatori, nazisti, profughi. Madri perdute e cercate, madri da cui fuggire e a cui tornare. Famiglie sparse per i mondi, lingue opposte e coincidenti. Guerre e il loro carico di tragedia, di rottura dei rapporti, di dispersioni. La Storia come ritorno, come sistema di porte girevoli che ci riporta al presente (e un meraviglioso applauso quando Insolia ha fatto riferimento a «un gruppo di neonazisti, quindi non brave persone»). La letteratura come ritorno, su libri che ci hanno molto detto, su autori che ci hanno molto (in)segnato.
E noi del pubblico che oltre ad ascoltare guardavamo le ombre, le scarpe, il modo di tenere le mani, di guardare dal palco, di passare il microfono al successivo della fila (che la letteratura è come il diavolo, sta nei dettagli).
E pensavamo: che dodicina potente, che libri, che parole. Con ben otto scrittrici su dodici, il record di sempre (chiariamolo subito, il punto non è se esista una letteratura di genere, ma il fatto che le scrittrici sono sempre di più e sempre più capaci, a nostro avviso, d’imprimere svolte e accelerazioni e rotture alla letteratura). Certo, il tempo era poco e il format stringente – anche con saluti e ringraziamenti ridotti al minimo (assenti quelli delle autorità isolane, imperdonabilmente, vista la portata davvero storica dell’incontro) – ma le suggestioni si sono accese, e le curiosità, le misteriose alchimie che ci conducono a una pagina o ad un’altra, di segno opposto.
Così, noi ampio pubblico (sala gremita, molta emozione) abbiamo ascoltato con gratitudine Rosella Postorino (reggina, già vincitrice del Campiello), la sua magnifica veemenza e la sua capacità di plasmare il buio, maneggiarlo a mani nude e raggiungere le contraddizioni dell'umano, nella sua storia («Mi limitavo ad amare te», Feltrinelli) di strappi e patrie perdute (tutti siamo profughi, e strappati); Carmen Verde e quella misura minima di tutte le cose («Una minima infelicità», Neri Pozza), in un mondo smisurato di false grandezze, e anche quella parola lanciata giusto alla fine: «verità», per dire che nessun romanzo la rivela, sebbene ogni ottimo romanzo non parli d'altro; Igiaba Scego e le famiglie diasporiche e disseminate di «Cassandra a Mogadiscio» (Bompiani), i mondi tesi nello sforzo di parlarsi senza conoscere le lingue reciproche ma senza smettere di provarci (che è giusto il contrario delle guerre, dei fascismi, dei razzismi); Silvia Ballestra («La Sibilla», Laterza) che ci ha fatto sentire dal vivo la voce lontana, vivida, di un’autrice, e traduttrice, e partigiana, e sibilla e maga come Joyce Lussu, e d’un modo di vivere tutte le vite in una (che è lo sforzo per cui scrivere libri, per cui inventare cose); Maria Grazia Calandrone che a un certo punto ha detto, raccontandoci la sua investigazione all'indietro nel tempo in «Dove non mi hai portata» (Einaudi), «sono diventata la madre di mia madre», e chissà che non sia il destino di tutte: subito dopo, è stato Andrea Canobbio («La traversata notturna», La nave di Teseo) a dirsi «padre di mio padre», e lì abbiamo capito che sforzo profondo c’è, nel ricostruirsi all’indietro, scalare le montagne di padri e figli e cose e luoghi perduti.
E poi Romana Petri («Rubare la notte», Mondadori) che ha evocato l'altro volo di Antoine de Saint-Exupéry, non verso il pianeta del Piccolo Principe ma il «volo di notte» verso il nulla e la luce, e ha richiamato, in mezzo a tante maternità mostruose, certe «mostruose figlitudini»; Maddalena Vaglio Tanet e il suo bosco dove la coscienza umana si disfa, si spella, dove si rovesciano i ruoli, gli accuditi diventano accudenti, chi insegna la parola la perde e tutti dobbiamo ritrovarla, magari con l’aiuto di scrittore e scrittori, cercando di «Tornare dal bosco» (Bollati Boringhieri). E la solitudine di Ada D'Adamo, ora persa nella morte, dopo tutto il travaglio vissuto e raccontato in «Come d’aria» (Elliot), ma presente nel modo medianico ed evocativo della parola (di lei, per lei ha parlato Loretta Santini, direttore editoriale di Elliot). E Gian Marco Griffi e la sua sarabanda tra le «Ferrovie del Messico» (Laurana), che è diventata una sorta di “controleggenda dell’editoria”, l'unico modo – ironico, anzi grottesco, anzi travolgente – per raccontare certe tragedie della storia, tragedie ridicole ma per cui soffriamo ancora adesso; Vincenzo Latronico, con uno spettacolare orecchino che di certo Perec (ispiratore di «Le perfezioni», Bompiani) avrebbe classificato tra le sue "cose", e di assoluta qualità “instagrammabile” che oggi è l’epiteto che più sembra ricercato per le nostre vite, anche interiori; i debiti d'amore di Andrea Tarabbia («Il continente bianco», Bollati Boringhieri), i suoi personaggi che si rovesciano in altre storie, perché le scritture sono anche riscritture e strade da Pollicino da ripercorrere all’indietro.
Insomma, un bel viaggio da rifare sui libri, pagina per pagina, cercando – come ogni anno vorrebbe fare il Premio Strega – di comporre il nostro volto, la meta sempre sfuggente.
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