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Martin Amis e «gli scrittori che muoiono due volte»

Un ricordo dell’autore inglese scomparso a 73 anni

Martin Amis, lo scrittore inglese morto venerdì in Florida

Quando Martin Amis, scomparso a 73 anni nella sua casa di Lake Worth in Florida (era nato a Oxford nel 1949 e dell’aplomb english aveva tutte le movenze, anche quando s’indignava da polemista qual era, benché gli inglesi, soprattutto nei loro aspetti peggiori, non è che poi li amasse molto), nel 2014 fu premiato ad Alba per la sezione “La quercia” del Premio Bottari Lattes Grinzane per il suo romanzo “London Fields” (Einaudi 2009, già proposto da Mondadori nel 1991 con il titolo “Territori londinesi”), in uno dei passaggi della sua lectio magistralis disse che «se gli scrittori muoiono due volte, quando muore il loro talento e quando muoiono fisicamente, i loro libri continuano a vivere». A cui aveva aggiunto, nella nostra conversazione: «Che il mio libro possa essere letto man mano che si invecchia e si pensa sempre più alla posterità, è il miglior premio possibile. Che London Fields sia sopravvissuto, dopo venticinque anni, è già un successo; sarebbe bello che durasse ancora molto e non venisse considerato datato».

Certo che durerà, mister Amis, perché, con «l’asprezza che senza compromessi in narrativa è l’unico modo in cui si può esprimere la ricerca della verità (e solo gli scrittori hanno il diritto di dire che, forse, una verità non c’è)», fare in modo che un’opera di finzione possa sembrare più vera che il reale stesso (che col passare del tempo sembra sempre di più un’opera di finzione) è garanzia di durevolezza.

Figlio dello scrittore Kingsley Amis, laurea in letteratura ad Oxford, recensore di punta, appena ventunenne, dell’Observer e del Times Literary Supplement, la scrittura per Amis era un esercizio di inquietudine che lui spalmava con generosità nei suoi libri, dal suo primo romanzo “Rachel Papers” (Le carte di Rachel, 1973) cui seguì “Dead Babies” (Futuro anteriore, 1975), “Success” (Successo, 1978), sino a “Money” del 1984, incluso da Time nell’elenco dei migliori 100 romanzi di lingua inglese dal 1923 al 2005. E, tra gli altri, sino a “L’informazione” del 1995, lunga riflessione sul fatto che sul “niente” delle nostre vite e dei nostri “sogni tristi” (così l’incipit del romanzo) regna “l’informazione”, la massa di notizie che regola i nostri stessi sentimenti e nel caso dei due personaggi del romanzo, due scrittori, uno di successo, l’altro fallito, genera anche invidia e malanimo.

“London Fields” (che è anche un’area di Londra), la sua opera più ampia (630 pagine, trad. di Ranieri Carano), è una complessa meditazione, tra humour e satira, tra mistery e distopia, sull’amore, sulla morte, sul finire di un secolo o forse anche sul finire del pianeta. Mentre scende nella parte più buia dell’umano (ma non mancano vibrazioni liriche alla Dickens) pur nello scenario apocalittico di fine millennio (è il 1999, in una Londra post-thatcheriana di decadenza ambientale, sociale e morale), Amis dispiega la sua poetica con la decostruzione della forma narrativa, del personaggio stesso (Gian Arturo Ferrari ha parlato di cubismo narrativo) e dei piani temporali, ma con una solida unità stilistica e tonale.

Giocare con le parole e soprattutto con l’onomastica, sapere che nel racconto tutto può essere enunciato, tutto può accadere e ripetersi, significava per Amis, nemico del politicamente corretto e dei cliché, declinare la grammatica dell’esistenza attraverso tutti i registri, grottesco, comico, drammatico, e i generi, dal noir all’umoristico all’elegiaco, già squadernati a cominciare dai suoi incipit spiazzanti, come in “Il treno della notte”, 1997: «Sono una polizia», o in “La zona d’interesse”: «Non ero estraneo al bagliore del lampo, non ero estraneo al fragore del tuono, non ero estraneo all’acquazzone». Un libro questo, del 2014, pubblicato da Einaudi nel 2015 (trad. di Maurizia Balmelli), ambientato nella Germania nazista e nella “zona d’interesse”, del Kat Zet, il campo di Auschwitz, ragione per la quale la lectio magistralis di Amis per il Premio Bottari Lattes Grinzane fu dedicata a Primo Levi, alla sua figura di intellettuale e di sopravvissuto, la cui morte da suicida Amis percepiva come una sfida.

Ma perché scrivere ancora di Auschwitz? si chiedeva lo stesso Amis. «Non so se scrivendo – diceva - ho imparato qualcosa di più sulla Germania, sull’Olocausto. Certamente, ho imparato qualcosa di più su di me. Riflettervi sempre è necessario, serve per capire di noi, per comprendere cosa pensiamo, come ci analizziamo». E se i nazisti, secondo Amis, non sono mammiferi ma rettili, Hitler (mai menzionato nel romanzo) rimane comunque un mistero, così come un mistero resta l’Olocausto. Ecco perché per raccontarne l’orrore, per demistificare l’incanto quotidiano del male, Amis aveva scelto la cifra grottesca e allucinatoria.

Influenzato da Saul Bellow, Vladimir Nabokov, James Joyce, Elmore Leonard e dal padre, considerato, con Ian McEwan e Julian Barnes, una delle migliori voci della prosa inglese, Martin Amis era un raffinato saggista e si era misurato con le sceneggiature cinematografiche di Saturno 3 e di London Fields, e, inoltre, dai suoi romanzi sono stati tratti i film “La ragazza dei sogni”, “Dead Babies”, la miniserie televisiva “Money” e “London Fields”.

Sognava una società migrante, libera, Amis, contro ogni egoismo sfrenato, un governo globale, una conglomerazione di nazioni. Del resto, siamo tutti migranti, anche del tempo, e il tempo - diceva - «è il premio più prezioso cui si possa ambire». E il tempo, la memoria, sono la cifra sia di “Esperienza” (Einaudi, 2002, trad. di Susanna Basso), racconto autobiografico che scava dentro se stesso, sia del suo ultimo fluviale romanzo, “La storia da dentro” (Einaudi 2023, trad. di Gaspare Bona ), magnifico crocevia nel quale si affollano personaggi veri (dal padre Kingsley agli amici Bellow, Larkin, Hitchens, a Nabokov, Rushdie, McEwan, Barnes) e di finzione, per parlare della vita e della morte, per camminare nella memoria.

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