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Quell'Eco in teatro... Bruschetta a Messina con "La misteriosa fiamma della Regina Loana"

Dal romanzo del grande semiologo uno spettacolo pieno d’invenzione ed energia

Uno dei romanzi più arditi, complessi e (auto)ironici di quel grande plasmatore di linguaggi, da semiologo praticante, che era Umberto Eco, approda al palcoscenico: «La misteriosa fiamma della regina Loana» andrà in scena, con la regia di Giuseppe Dipasquale, domani e domenica al Teatro Vittorio Emanuele di Messina. Il protagonista, Giambattista Bodoni detto Yambo, che è il perno della narrazione (ed è una chiamata in causa, forse in correità, di ogni lettore, di ogni fruitore di testi), è un volto amatissimo del cinema e della tv, con una schietta anima di teatrante: il messinese Ninni Bruschetta. Ne abbiamo parlato con lui.

Dalla pagina di Eco al teatro. Un bel salto, dalle costruzioni metatestuali e i giochi semantici e strutturali del romanzo di Eco a una drammaturgia che s'annuncia molto articolata...
«Sì, è proprio un bel salto, anche perché l’adattamento di Giuseppe Dipasquale mira a sedurre il pubblico, usando anzitutto l’ironia di Umberto Eco, che in questo caso è autoironia, la musica, le canzoni, nonché le immagini di questo immenso tuffo nel passato, che uno scrittore come Eco ci fa vivere attraverso un geniale artifizio. Il protagonista, infatti, ha perso la memoria, ma solo quella episodica, per così dire, o emotiva, mentre ha mantenuto quella storica, letteraria o semantica, come la definisce lo stesso Eco. Così attraverso le sue conoscenze e con l’aiuto di amici, familiari e molti altri, riesce a risalire fino a se stesso, viaggiando, appunto, tra le illustrazioni, le canzoni, le opere e la storia del nostro paese, dagli anni trenta alla fine del secolo».

Sei Yambo, il protagonista. Bodoni di cognome, come un celeberrimo carattere di stampa. Un personaggio squisitamente letterario. Cosa ne hai fatto, e cosa lui ha fatto a te?
« “Giovanbattista Bodoni era un celebre tipografo, certamente non sono io…” dice Yambo al dottor Gratarolo all’inizio dello spettacolo, quando ancora non ricorda il suo nome. L’aspetto letterario c’è, ma, come dicevo, fa parte dell’artifizio narrativo. Eco si nutre delle sue conoscenze per raccontare un personaggio divertente, sperduto, autoironico e si direbbe persino critico nei confronti del suo stesso sapere e comunque molto più interessato alle donne, con le quali non fa certo sfoggio della propria cultura, anzi a tratti diventa docile e vittima come un personaggio di Brancati. Io ne ho fatto poco, direi, perché ho ritrovato moltissimo di me stesso. Anche se non sono colto come Umberto Eco ho sempre creduto nello studio e mi piace godermi la vita, proprio come Yambo. Cosa ha fatto lui di me lo vedranno gli spettatori. Noi portiamo in scena la maschera dei nostri personaggi, che è la nostra faccia e anche se recitiamo siamo noi».

Teatro nella tua città: un punto di riferimento costante, per quanto un artista messinese possa andare oltre...
«Il mercato del teatro, quello del cinema e quello della televisione si estende su tutto il territorio nazionale. Quindi qualsiasi attore professionista diventa giocoforza un nomade. Io però ho lavorato e continuo a lavorare spesso e con piacere a Messina. Sia perché ha un bellissimo pubblico (e dopo 40 anni di teatro lo posso dire con cognizione di causa), sia perché sono rimasto legato alla città e i cittadini mi ricambiano quest’affetto a ogni angolo di strada. Quando sai che qualcuno viene a teatro perché ci sei tu, anche se hai cent’anni, è solo in quel momento che hai la certezza di fare questo mestiere. Questa certezza i messinesi me l’hanno regalata quando ero ancora giovanissimo e gliene sono molto grato».

Se dovessi immaginare una stagione, cosa vorresti vedere, o essere?
«Beh, a Messina vorrei vedere prima di tutto più teatri, vorrei vedere amministratori che consegnano il teatro a chi è nel teatro, vorrei vedere passione e abnegazione tra i dipendenti. E soprattutto non vorrei vedere il teatro pubblico  condizionato da politiche di “sottogoverno” che ne sviliscono l’autorevolezza, un teatro che grazie al lavoro di molti di noi (cito fra tutti Massimo Piparo e Maurizio Marchetti, perché lo hanno anche diretto) era diventato un punto di riferimento. Dopo tutto questo vorrei vedere semplicemente quello che si è visto negli anni migliori: vedere rinascere veramente l’Orchestra, vedere un certosino lavoro sul territorio, gli spettacoli internazionali (facilissimi da acquistare coi fondi europei), il teatro italiano contemporaneo, i classici e la ricerca, ma sempre secondo un criterio di qualità, scevro dalla folle logica degli scambi tra teatri pubblici, che ha affamato il teatro negli ultimi decenni».

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