Quanto possono apparire inagibili (non sempre ma spesso) per i semplici amatori i libri di storia della musica scritti da pur eminenti musicisti professionisti, e quanto invece a volte riescono ricchi e interessanti quelli frutto di mera (insaziabile e travolgente) passione vergati dai suddetti (ancorché coltissimi) semplici amatori. Uno di questi è l’esemplare saggio cadutoci tra le mani, «Donizetti e la Francia» (Musica Practica, prefazione di Attilio Piovano). L’autore, Roberto Monaco, del resto, è semplice amatore ma sol perché di mestiere ha fatto altro: 75 anni, docente in pensione di Fisica-Matematica al Politecnico di Torino, uno sterminato catalogo di pubblicazioni scientifiche e generazioni di architetti da lui formati. Un uomo di scienza dunque, che alla carriera accademica ha affiancato una “seconda vita” da musicologo che, tanto per dire, si è inventato un workshp a tema “Architettura, Scenografia, Musica” in collaborazione con il Teatro Regio di Torino e ha collaborato con il Teatro Baretti, sempre nel capoluogo piemontese, per il settore musicale.
Il volume di Monaco di cui ci occupiamo è il suo terzo, e in coerenza con i precedenti – «Conversazione liriche» (2019, Nuova Trauben) e «Meyerbeer. La vita e le opere» (2022, Musica Practica) – rivela in pieno il focus della sua passione: il melodramma e la sua storia, con riferimento centrale la Francia e il rutilante mondo del grand opéra.
Di Gaetano Donizetti (Bergamo 1797-1848) si sa tutto ma si conosce in realtà molto poco. Il perché si spiega velocemente con una comparazione parallela che può accomunare tutte le divinità della grande tradizione dell’opera italiana. Una semplificazione, sia chiaro, ma utile allo scopo. Bellini, Verdi e Puccini furono sia pure in tempi diversi “artigiani” della loro musica: ci hanno lasciato poche opere, in ognuna di esse aggiungendo qualcosa alle precedenti a livello di ispirazione e tecnica di scrittura, di conseguenza portando il loro genio ad attingere vette sempre più elevate, e – specie gli ultimi due – indirizzate verso il futuro. Di loro tre, oggi, con trascurabili eccezioni si esegue quasi tutto. L’esatto opposto di Donizetti e di Rossini, che della musica furono (il Pesarese per poco, il Bergamasco per tutta la vita) non artigiani ma professionisti frenetici, oggi oseremmo dire quasi “fabbri” o artefici da catena di montaggio del melodramma, un genere che per due secoli almeno fu la principale forma di spettacolo prima dell’invenzione del cinematografo. Quelli che con falsa modestia il vecchio Verdi definì i suoi “anni da galera”, delle produzioni convulse e frenetiche, sono invece di fatto l’intera loro stagione compositiva.
Donizetti scrisse quasi 70 opere, e già il “quasi” dice tutto, visto che non c’è modo di venire compiutamente a capo della congerie di rifacimenti, traslazioni dall’italiano al francese e viceversa, e cambi di titoli e trame imposti da varie censure, quella borbonica di Napoli in primis. Di queste, appena tre capolavori – L’elisir d’amore, Lucia di Lammermoor e Don Pasquale – sono oggi stabilmente in repertorio in tutti i teatri del mondo. Altre cinque o sei (La Fille du régiment, La favorite, Anna Bolena, Maria Stuarda, Roberto Devereux e Lucrezia Borgia) sono eseguite con una certa frequenza. Delle altre, il grande pubblico sa poco o nulla, se non che qualcuna (tra cui significativamente l’ultima, il Dom Sébastien) è probabilmente meritevole di qualche occasionale ripresa.
Il saggio di Monaco è una esaustiva silloge della produzione donizettiana per i teatri di Parigi, città dove il compositore trascorse una buona parte dei suoi anni migliori. Vi trovano diffusamente posto i lavori assimilabili al genere dell’opéra comique (La Fille du régiment ) e soprattutto i grand opéra: Lucie de Lammermoor, interessantissimo rifacimento; Le duc d’Albe; La favorite e il suo doppelganger L’Ange de Nisida; Les Martyrs, versione francese del Poliuto, e Dom Sébastien. La ricostruzione, ricca di riferimenti storici e aneddotici, comprende un’efficace sintesi del contesto storico-artistico dell’opera a Parigi tra il Settecento e l’Ottocento, e origina dai primi contatti del compositore con quell’universo multiforme e cosmopolita, per lui calamita di fortissima attrazione che lo indusse a rompere con la veneranda ma anche polverosa e alquanto reazionaria tradizione cui lo legava il contratto capestro fattogli firmare dal famigerato impresario Domenico Barbaja. Un’avventura cui fornì il detonatore il trionfo ottenuto al Théâtre Italien dalla sua Anna Bolena, che contribuì ad aprirgli le porte all’epoca più ambite per ogni compositore italiano e non solo.
Ma se le opere di Donizetti sono il fulcro del saggio di Monaco, non è tralasciato il lato umano del compositore, uomo franco e simpatico – anche ingenuo, ad esempio nella sua ammirazione tutt’altro che ricambiata per Bellini – seppur dolorosamente sfortunato nella vita privata, che piacevolmente emerge tra mille vicende della sua storia artistica parigina.
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