Martedì 24 Dicembre 2024

Etnia, razza, identità: in che senso? Parla l’antropologo calabrese Minervino

Etnia, razza, identità: parole che tornano insistentemente nel discorso pubblico, e talora non mancano d’inquietare. Ne abbiamo parlato con un attento studioso di linguaggi, comunicazione e fenomenologie culturali, l’antropologo Mauro Francesco Minervino, cosentino di Paola, ordinario di Antropologia Culturale ed Etnologia all’Accademia di Belle Arti di Catanzaro, notista su quotidiani e riviste, autore di programmi di successo per testate radio e tv, autore di numerosi saggi (ricordiamo il bellissimo “Statale 18”, Fandango, 2010) e che ha appena presentato al Salone di Torino “Verso il Mar Ionio. Un vittoriano al Sud” di George Gissing (con un testo inedito di Virginia Woolf, edizioni Exòrma), che ha tradotto e curato, e sarà oggetto di un incontro nella prossima edizione di Taobuk. Facciamo chiarezza: cosa s'intende scientificamente, oggi, per «etnia» e per «razza», e che senso può avere parlare di «etnia italiana»? Aggiungerei la contrapposizione tra «popolo» e «nazione», anche questa in fortissima evidenza nel dibattito attuale. «Sul troppo reclamato concetto di etnia c’è una voce interessante del Dizionario di Politica di Norberto Bobbio: “Etnia è un gruppo sociale, la cui identità è definita dalla comunanza della lingua e della cultura, delle tradizioni e delle memorie storiche e del territorio”. Una nozione apparentemente accettabile, ma pur sempre collegata allo schema della discendenza diretta di un singolo gruppo umano che si identifica con tradizione/storia/territorio. È una definizione che va decostruita. L’idea normativa di etnia compare la prima volta nel 1896, nel libro “Les sélections sociales” dell’antropologo sociale francese George Vacher de Lapouge, favorevole all’eugenetica razziale e convinto che il destino dell’umanità dipendesse dalla vittoria degli ariani sugli ebrei. L’etnia è quindi uno dei fondamenti del razzismo novecentesco. Si porta dietro lo stigma del pregiudizio di razza. Oggi sappiamo dalla scienza che è impossibile distinguere e determinare un gruppo umano solo dai caratteri biologici: questi, anche quando trasmessi per via ereditaria, “confluiscono gradualmente nei gruppi contigui”. Insomma, da sempre gli esseri umani si mischiano, si confondono, cambiano continuamente. Di più: non c’è alcun rapporto diretto tra i caratteri biologici ereditari e quelli etico-culturali ed è per questo che il concetto di razza è di per sé fuorviante e pericoloso. Occorre poi distinguere l’etnia dalla nazione. Esistono nazioni formate da molti differenti gruppi linguistici. Prendiamo la Francia: lì ci sono bretoni, baschi, alsaziani, corsi, occitani, catalani, fiamminghi. È accaduto anche in Italia. La storia, soprattutto da noi, è stata una centrifuga. Ed è sempre più difficile che esistano Stati i cui confini coincidono con quelli di un unico gruppo etnico. Ciò prova l’arbitrarietà della presunta teoria normativa dei “caratteri nazionali”, che ha invece la funzione ideologica di “dare un fondamento alla leggenda delle origini delle nazioni, secondo le quali le nazioni precedono lo Stato”. Le caratteristiche dell’etnia non dipendono dalle forme dell’organizzazione politica dello Stato. È vero quasi sempre il contrario: è lo Stato moderno a creare le nazioni. La retorica etnica e nazionalista va maneggiata quindi con cura, uscendo dal gorgo fatale delle parole “razza”, “etnia” e “nazione”. Anche quando ci si preoccupa per la perdita di peso e di centralità dell’ “italianità”, cioè della “nostra identità culturale”. Certo gli scompensi demografici hanno già un impatto sul nostro sistema pensionistico e sociale. Come rimediare? Facendo più figli, ma a patto che siano figli italiani, dice la propaganda di una certa destra di governo. Le preoccupazioni demografiche, con questa logica, non sono più legate a questioni di tenuta del sistema del welfare, ma identitarie, ideologiche. Come la presunta “sostituzione etnica” in corso, evocata in passato anche da Meloni, che ha però detto di ignorare l’origine dell’espressione, usata volentieri dai suprematisti neonazisti e dai cospiratori del famigerato “piano Kalergi”. La preoccupazione demografica non va derubricata solo come un nostalgico rigurgito razzista. È sbagliata la risposta. Perché tutti noi che viviamo in questa comunità siamo orgogliosi della nostra storia (non di tutta: del fascismo, per esempio, non siamo orgogliosi) e dei nostri valori fondativi, valori etici e culturali condivisi da gran parte dell’Occidente, delle nostre libertà acquisite. Siamo fieri anche noi di essere italiani, ma non al punto da non riconoscerci per questo in principi civili e in valori etici universali. Non al punto da considerare l’identità culturale ed etica, l’italianità (altra oscura nozione retorica) come un dato acquisito, immobile e appartenente a un solo gruppo “etnico”. L’identità non è mai definita una volta per tutte e soprattutto non si acquisisce per sangue – qui ritornerebbe in gioco, più che l’etnia, un abominio come la razza. La definisce ed elabora, casomai, una comunità in movimento, attraverso orientamenti culturali, comportamenti civili e leggi. Quello che dovrebbe fare una comunità fiera dei suoi principi è perciò accogliere e integrare nel miglior modo possibile gli immigrati, in modo da farne non solo forza lavoro a basso costo, ma nuovi cittadini, nerbo di quella nazione in continua evoluzione, che del resto è già quello che siamo, piaccia o non piaccia. Non etichette etniche, ma regole certe che integrino a pieno titolo i nuovi italiani nella comunità che già dimora nel territori di arrivo. Fare in modo che gli altri aderiscano al contratto sociale che ci tiene uniti come cittadini, e che lo rispettino e lo onorino. Altrimenti l’identità italiana diventa di nuovo un pretesto etnico, un totem, un baluardo metastorico da brandire contro lo straniero. Un feticcio consacrato in nome di una storia finta e immutabile, inevitabilmente nostalgica e reazionaria. Proprio noi italiani dovemmo già saperne qualcosa, come emigrati a nostra volta in giro per il mondo. E anche come italiani del Sud, reificati dalla propaganda leghista». L' “etnia” è posta in relazione a una questione considerata cruciale, oggi, da alcune parti politiche: l'identità nazionale. Le questioni identitarie, i temi identitari, gli autori identitari. Per un antropologo che cosa è l' “identità” di un popolo? «Forse a questo punto è meglio chiedersi chi si vuole difendere, e cosa e come, quando vengono tirate in ballo astrazioni normative come etnia, identità nazionale, popolo, nazione. Il feticcio dell’etnos italico poi è grottesco, basta guardare alla storia secolare del nostro Paese, e se preso sul serio ci spinge a tornare indietro alla retorica razziale del fascismo, all’impero, alla presunzione coloniale. Si ritornerebbe a quello che ci definisce, al noi contro gli altri. Perché cruciale è considerato il ripristino del totem etnico, mi chiedo, e non un altro connotato distintivo nazional-popolare? Come, per esempio, il paesaggio, l’arte, la letteratura, la cultura? La civiltà, l’educazione italiana? L’identità è molte cose insieme, non è l’etnos, non ha a che fare impropriamente con la stirpe (quale?), con le tradizioni (di chi?), con i miti della patria e del sangue o con l’idolatria identitaria di cui si sente di nuovo parlare a vanvera. È un prodotto dinamico dei cambiamenti culturali, non è mai fissa e stabilita, ed è il prodotto di stratificazioni e mutazioni storiche sempre in atto, che si sviluppano entro un campo di forze culturali e sociali che oggi è sempre più difficile delimitare e comprendere. Perciò è necessariamente molteplice e legata ad un sapere critico. Specie quando si tratta di applicare questo schema alla presunta integrità culturale di un popolo-nazione. La società moderna non è un’idea “assoluta”, ma è calata nel tempo e nello spazio. E l’inserimento dei gruppi sociali nella storia non avviene più su scala locale (il nostro passato), ma accade nella storia globale (il nostro passato in riferimento al passato del mondo). Decretare la fissità di questo schema è quindi un artificio propagandistico, ed è una arroganza tipica della politica, una rappresentazione che fa acqua da tutte le parti. Forse l’unica patria che abbiamo e in cui tutti possiamo sentirci a casa è invece la lingua, il canone che a partire dalla scuola pubblica unifica e arricchisce i nostri scambi e i nostri significati culturali e umani. E così facendo ci rende cittadini attivi e consapevoli. Ed è anche quello un processo in movimento, in trasformazione, dentro una storia che in Italia precede di molto la nascita della nazione e la formazione dello stato unitario. È proprio il codice della lingua che tiene insieme tutto e ci rende uniti, che ci fa popolo. Questa è l’unica nozione di popolo che ritengo accettabile: quella dei parlanti – una cultura plurale, una lingua – che stabilisce quel tramite sentimentale necessario tra la cifra individuale del nostro parlare e il canone collettivo della lingua culturale. Il compaesano oggi anche da noi non è necessariamente un connazionale, così come l’attivista per i diritti dei popoli oppressi o colonizzati non è tenuto a essere un nativo. Tutto il resto viene dopo, ed è meno importante». C'è un rischio, a suo avviso, nell'uso propagandistico di taluni concetti? «Sì, enorme, se non sorvegliato. Le relazioni sociali disaggregate sono tipiche della modernità, piaccia o non piaccia, e quindi implicano fiducia, relazione, istruzione. Una negoziazione costante. Fuori da questo schema, faticoso s’intende, molto faticoso, esistono però solo la barbarie e i sistemi dittatoriali. Le culture tradizionali oggi non bastano più a dare identità, dato che se prese alla lettera rispettano il passato e traggono il valore del presente solo da esso – l’autorità dell’eterno ieri di Weber. Del resto oggi anche la pretesa riflessività dell’agire tradizionale deriva da una reinterpretazione pigra del passato che, perciò, ancora una volta, pesa molto più dell’immaginazione e del futuro. L’agire sociale moderno non si può basare più esclusivamente sul passato, ma viene costantemente informato alla luce dei dati contrastanti acquisiti nelle pratiche del contemporaneo. La modernità revisiona radicalmente le convenzioni e modifica ogni aspetto della nostra vita sociale. Se la tradizione trova criteri di legittimazione esterni a sé (Dio, la Patria, la stirpe, le tradizioni, etc.), la modernità trova invece legittimazione solo in sé, nella propria complessità; ma tale legittimazione è pur sempre aperta, contraddittoria, in discussione. Per questo motivo occorre mettere in guardia da ogni scelta radicale in tema di tradizioni, nazionalismi e primati etnici. Mistificazioni considerate facili àncore di salvezza dai rischi di dispersione nella modernità».

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