Martedì 24 Dicembre 2024

Lo Stretto e le sue divinità: a colloquio con lo scrittore reggino Vins Gallico

Chi è strettese prima o poi sullo Stretto ci torna, sempre. Gli scrittori non solo non fanno eccezione, ma costituiscono una magnifica regola. È il caso di Vins Gallico, classe ’76, reggino di Melito, al suo quinto libro e terzo romanzo (con il secondo, “Final cut. L’amore non resiste”, fu nella dodicina dello Strega 2015), appena uscito per Fandango: “Il Dio dello Stretto”. Un noir atipico, come è consuetudine dell’autore, che ama giocare coi generi e sovvertire i cliché: in «La barriera» (2017, Fandango) i nuovi migranti siamo tutti noi dell’Europa del Sud, in un mondo del prossimo futuro caotico e spaventoso in cui la Germania costruisce una grande barriera per respingere i clandestini; in «Final Cut» il protagonista gestisce una sorta di impresa per catastrofi sentimentali, ovvero si occupa dei rapporti finiti male, di cui cura traslochi, svuotamento di armadi e cancellazione di tracce... emotive. È così anche per questo noir ambientato negli anni Novanta in riva allo Stretto, di cui è protagonista il giovane pm Mimmo Castelli, molto distante dai procuratori e giudici e investigatori che affollano la scena attuale, e in cui il delitto che apre la narrazione non è nemmeno perseguito, innocenti e colpevoli sono confusi tra loro e la verità sta certamente fuori dalle traiettorie della giustizia. E dove trovano spazio e affettuosa celebrazione alcune figure indimenticabili del mondo reggino e non solo: don Domenico Farias, sacerdote scomparso nel 2002, che univa una sterminata cultura alla più severa militanza sociale, e nel cui nome si riconosceva un variegato e impegnato mondo cattolico; il professor Mimmo Castelli, docente di latino e greco che ha formato diverse generazioni di liceali reggini (tra cui chi scrive: e vi confermo l’amoroso debito di riconoscenza che in tanti sentiamo di avere con lui, per l’educazione alla bellezza, all’amore per la conoscenza e al gusto per la verità). Mimmo è alle prese con una famiglia appena formata, e un lavoro appena cominciato in uno dei distretti più difficili d’Italia, «nel triangolo delle Bermude della ’ndrangheta». E poi ci sono gli amici di sempre, «i ragazzi della via Pan», e quel modo di restarsi vicini ma diversamente da prima, quello degli adulti. In una città di vento e di sole, dove tutte le strade portano allo Stretto, orizzonte inevitabile e intimo di tutte le esistenze. Vins Gallico presenterà il libro oggi a Messina (ore 18, Libreria Bonanzinga), e poi in giro in Calabria (domani a Lamezia, al festival Trame, con il giornalista reggino Giuseppe Smorto; giovedì a Crotone; venerdì a Catanzaro, sabato a Scilla). Chi è il dio dello Stretto? È un dio diverso? «Il Dio dello Stretto lo sceglie il lettore. Può essere il Dio cattolico, ma anche qui ci sono tante possibili fedi, o modi di viverla: la fede bigotta, la fede intima, la fede dichiarata, i credenti non praticanti, i praticanti magari non credenti. Ma può essere anche un’entità malvagia, la ’ndrangheta, chi domina effettivamente quel pezzo di terra e di mare. Ma potrebbe essere anche una persona, magari un giovane pubblico ministero che, peccando di hybris, pensa di poter dettare legge ed essere lui giudice universale su quel territorio. Oppure può essere ancora altro. Io ho dato un titolo che non è una risposta, ma piuttosto è una domanda». Il tuo giudice è parecchio diverso dai giudici che affollano la scena narrativa. È pieno di dubbi e quello che vediamo di lui è soprattutto la sua vita familiare. Come lo hai concepito (oltre al nome, che per noi reggini è "parlante")? «Ho provato a creare un protagonista che fosse molto differente dagli stereotipi del noir italiano, m’interessava una figura che fosse il contrario del “figo”: uno sfigato, cattocomunista, poco sportivo, che non ci sa fare con le donne. L’idea era di farne un personaggio come l’ “idiota” di Dostevskji, uno che vuol essere assolutamente buono, assolutamente giusto. Ma cosa succede all’ “idiota” se va sotto pressione? Si comporta davvero da buono e giusto o rischia di diventare come il Walter White di “Breaking Bad”? Ecco, questa metamorfosi Mimmo Castelli non la ottiene mai del tutto. Lui non diventerà mai “cattivo”. Quindi un tentativo di ribaltare il cliché del noir. Se è vero che il noir è sempre stato uno strumento per parlare della società, mi sembra invece che i noir italiani parlino pochissimo della realtà delle forze dell’ordine, del sistema giuridico, delle forme detentive. Per me era importante fare anche questo tipo di ragionamento». Tu citi don Farias, che molti ricordano. E il tuo protagonista ha un nome “parlante” per molti reggini (me compresa)... «Il nome che ho scelto per il protagonista è Mimmo Castelli. Ovvero quello d’un mio grandissimo docente di greco, uno che nella stessa lezione era capace di parlare di Socrate e di Pasolini. È una dedica a questo prof che secondo me ha indirizzato più d’una generazione». Tocchi molte cose, nel libro: molti mostri con cui conviviamo, dalle rovine di Saline Joniche alla statale 106. Cose di cui ormai si sa tutto ma per cui non ha mai pagato nessuno (o meglio, per cui abbiamo pagato noi cittadini). Tocchi anche la cecità verso tutto questo. La metti addirittura in scena... «Domanda molto pertinente: il libro parla di bellezza e parla di bruttezza. Lo Stretto è un magnifico colpo d’occhio, e rischia di diventare un orribile pugno nell’occhio, qualora venisse deturpato da un ponte... Il rapporto con la possibilità di capire, di sapere, di vedere è un tipico conflitto, una tipica trama del mondo antico: la grande poesia, quella che ricorda, racconta e mitizza, quella di Omero, è di un uomo cieco; Tiresia, che sa troppo, e racconta il male. E penso al mito di Orfeo: girarsi e guardare può essere una condanna. Nel mio caso non credo di aver condannato Reggio e lo Stretto, anzi spero di aver reso merito e dato spazio alla loro bellezza, ma non volevo nemmeno nascondere la testa nella sabbia, quindi non vedere, non parlare di quello che è, tuttora, un coacervo di orrori, di ecomostri, di cose lasciate a metà. Di cose che, letteralmente, non si possono guardare». Lo Stretto è un orizzonte inevitabile, un interlocutore di tutte le vite. Non è un paesaggio ma un sentimento. Raccontaci il tuo, e come lo hai usato. «Lo Stretto se ci pensi è un luogo che è stato raccontato come un luogo rischioso, di Scilla e Cariddi. Non so se ti è mai capitato di vederlo anche come un lago. Chi non lo vede spesso, e chi lo vede per la prima volta mi rimprovera e mi dice: è un’emozione fortissima. Poi magari per gli strettesi diventa qualcosa di consueto, ma sempre vitale e indispensabile. È effettivamente il luogo in cui ritorno, con cui identifico la mia città: quando torno a Reggio torno allo Stretto. È un luogo dell’anima, e che quindi suscita sempre reazioni dell’anima, e potrebbe anche essere un bellissimo modo diverso di raccontare la Calabria. Non montagnosa, chiusa, grigia o marrone o verde, aspromontana, silana. Io vorrei proporre una narrazione gialla, solare, marsigliese. Proprio attraverso lo Stretto».

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