Tiziano Ferro in tour a Messina: «Lo Stretto a nuoto pur di venire in Sicilia!» L'intervista
Quello che passerà da Messina il 4 di luglio non è il tour di un disco. Non è neanche il recupero del tour precedente. È decisamente una creatura nuova, sarà come tracciare una linea. Lui, Tiziano Ferro, ha voluto chiamarlo TZN 2023 «perché è il tour del ritrovamento di me stesso, ma anche del ritorno a un mondo in cui nel frattempo è cambiato tutto, no?». E rientrare dentro lo stadio San Filippo, pieno di 35mila volti, sarà come tornare a quell’antica Grecia dell'arte, alla vulnerabilità e alla fragilità di un artista nudo, della gente che s'incontra di nuovo. «Può avere un valore alto, superiore. Mi ricorda la ragione per la quale faccio questo mestiere. Ho un grande senso di gratitudine nei confronti di chi verrà, niente è scontato. È la forza del dialogo a generare un incontro senza filtri». “Destinazione mare" è l'ultimo singolo. E se il mare è quello dello Stretto di Messina? «Se il mare fosse quello dello Stretto di Messina lo attraverserei anche a nuoto pur di venire in Sicilia!». Il palco di TZN 2023 ti somiglia... «È come me. Rischioso, senza protezioni, non ha quinte, non c’è neanche un angolo per nascondersi. C'è uno schermo così grande che i colori sbattono in faccia. Lo spettacolo inizia senza grandi effetti perché, dopo 6 anni, volevo riprendere semplicemente il discorso». Una scaletta lunga 33 brani. Qual è il più difficile? Quello irrinunciabile? «Difficili da cantare sono i brani nuovi perché non ricordo bene i testi (e ride). A parte la risposta scema, in realtà, selezionare le canzoni è stata la cosa più complessa di questo tour. I “classici”’ non si toccano: “Sere Nere” ha cambiato la mia vita, non mancherà mai. Come “Non me lo so spiegare”. Però ci sono anche brani più nuovi come "Accetto miracoli" che, anche se non l'ho mai cantato dal vivo, è entrato in maniera prepotente nelle preferenze speciali delle persone. Infatti l’ho scelto come apertura. E sarà la mia maniera per dire “ciao, benvenuti, bentornati”». Durante il concerto dedichi un lungo messaggio a Raffaella Carrà... «È dovuto, ci ho messo tempo a raccogliere le parole, a prendere la penna e riassumere anni e anni di amicizia, di esperienza, di serate, di chiacchiere. Lei ci ha messo la faccia e il tempo in tempi non sospetti, quando non erano in molti a investire su di me. Mi ha dato fiducia, ha visto in me delle cose che non vedevo e probabilmente non vedo ancora. È stata ascolto e coraggio». In vent'anni di carriera, il cambiamento che suono ha? «Il cambiamento è necessario. Ne abbiamo paura perché spesso gli diamo una connotazione negativa. È difficile quando cambi le coordinate riuscire a non perdersi e far sì che gli altri non ti perdano. Sono un introverso che ha scelto una maniera estremamente estroversa per esprimersi, che è la scrittura e la canzone pop. Se mi guardo indietro mi riconosco. Soprattutto mi do ancora la possibilità di stupirmi. Adoro pianificare, ma ogni tanto il deragliamento non è per forza un male». Vecchioni, Sting, Ambra, Caparezza, Thasup... cosa lega le collaborazioni dell'ultimo disco? «La loro follia, il loro modo di essere unici. Non è lo stile, è la testa. Ognuno di loro rappresenta in maniera definitiva una generazione. Vecchioni ha scritto il cantautorato milanese, ha spiegato dei codici e, pur essendo un professore, non lo ha fatto mettendosi in cattedra, lo ha fatto esponendo emozioni senza filtri. Sting, c’è poco da dire: se esiste la musica moderna è perché è stato tra quelli che l’ha inventata. Ambra è stata la nostra Britney Spears, la Madonna degli anni Novanta italiani, la nostra icona più grande in quel periodo. Io ero un adolescente e penso che se mi avessero detto che avrei cantato con Ambra sarei finito davvero al Pronto Soccorso. Caparezza per me è un uomo che utilizza la parola rappata per andare molto oltre. La sua poetica ha una forza duplice: il contenuto raggiunge la forza di Dante Alighieri, la musicalità del suono moderno delle strade del Bronx. È semplicemente un genio. E anche Thasup lo è. Penso che un ragazzo di 25 anni come lui che vive in un mondo social in cui tutti sono sovraesposti e decide di non farsi neanche vedere, nonostante il suo talento nel cantare, scrivere e produrre sia un innovatore, un genio appunto. Ha un grandissimo successo ma credo che abbia ancora un potenziale inesploso, sono convinto che può fare ancora di più». “Addio mio amore" avrebbe potuto avere tutti i significati. Ti sei pentito di aver svelato il tuo? «Non mi pento mai. Ma nemmeno mi piace in generale spiegare le canzoni, vorrei che ognuno le facesse proprie e trovasse la propria verità. Succede questo quando metti una canzone in ballo: la tua storia diventa degli altri e quella degli altri arricchisce la tua. Penso per esempio a Imbranato. Nel 2022 parlavo di me come di una persona impacciata, incapace di essere a contatto con se stessa e con i propri sentimenti. Oggi non sono così, ma a 44 anni ho trovato una storia nuova per cantarla, per declinare quella parola ancora in modo credibile. Quindi, Addio mio Amore poteva non parlare di depressione, poteva parlare di un addio sentimentale. Chi lo sa cosa mi suggerirà quando la canterò, spero, tra 5 o 10 anni». "Il mondo è nostro". Ma che mondo è? «Il mondo è nostro è una provocazione e un invito. Ho l’impressione che talvolta ci sfugga di mano. Abbiamo tutti gli strumenti per rendere il nostro mondo più vicino a chi siamo noi e spesso invece ci fissiamo con l’idea di doverci uniformare. Facciamo di tutto per essere ricordati ma poi abbiamo paura dei nostri difetti che sono ciò che ci rende unico. Non esistono regole, falle tu le tue regole! Tutti quelli che hanno fatto qualcosa che è rimasto hanno inventato il loro mondo, lo hanno reso loro». C'è un dio dal quale accetti miracoli? «Sono estremamente spirituale e la spiritualità non è necessariamente legata alla religione, ma se una persona ha la fortuna di avere un contatto con il proprio potere superiore... Io ce l’ho e lo chiamo Dio. Il mio è un Dio simpatico, affidabile». C'è più ispirazione nel dolore che nella gioia? «Trovo l’ispirazione attraverso la verità, qualsiasi essa sia. Nascondere le cose è faticoso più che esporsi. Creare una versione alternativa di sé è un marchingegno orrendo. Trovo intoccabile mantenere questo rapporto con la verità». Se incontrassi il Tiziano del futuro? «Gli domanderei cosa stai facendo e cosa sta succedendo nel mondo. Forse la domanda che gli farei davvero, sono onesto, è chiedergli cosa stanno combinando quei due (Andrés e Magherita), se vanno bene a scuola, se hanno un lavoro, se sono felici. Non mi preoccuperei di me stesso, a istinto chiederei di loro».