Omero c’è. Odisseo-Ulisse-Nessuno pure. C’è il corpo di ballo e il corpo della tradizione. C’è il corpo sinuoso delle dee, il corpo avvinto, intrappolato di Penelope, il corpo enorme del Ciclope – il suo smisurato occhio trafitto – , i corpi degli attori-danzatori-performer che si fanno coro, ciurma, manipolo, branco, folla di viaggiatori, ammasso d’ombre. Collettivo e individuale, remoto e futuro, antichissimo e ultramoderno, gesto e suono si fondono nelle quasi due ore del bellissimo «Ulisse. L’ultima Odissea», con la regia e le coreografie di Giuliano Peparini, ballerino e poi regista e coreografo di fama internazionale (e anche amatissimo direttore artistico e coreografo di «Amici») il cui trionfale debutto al Teatro antico di Siracusa chiude una stagione, la 58. degli spettacoli classici della Fondazione Inda, fitta di emozioni e premiata dal pubblico.
Siamo in un luogo perfetto per una storia di viaggi e meglio ancora di viaggi bloccati, ostacolati, inseguiti col ricordo, col racconto: lo spazio del teatro è stavolta un’immensa sala d’aspetto d’un aeroporto (le scene sono di Lucia D’Angelo e Cristina Querzola), con musichette, spot, display, cartelloni di destinazioni in continuo aggiornamento. Lì, tra un inserviente con secchio e scopa (Alessio Del Mastro, volto tv amato dai giovani) e un senzatetto che trascina le sue cianfrusaglie, va a rifugiarsi il viaggiatore più famoso del mondo antico e moderno, simbolo assieme di ardimento e sete di conoscenza senza limiti eppure di sventura e peripezia che allontana ogni giorno l’agognato ritorno: Odisseo si stende sui sedili nella confusione di jingle, rumori, trapestìo degli spettatori che stanno prendendo posto sui gradini della cavea e quasi non s’accorgono che la storia è già cominciata, e ci siamo già tutti dentro.
È l’«Odissea», dunque? No, e sì. È una pop-opera, una multi-opera il cui libretto è per intero (tranne un solo, potente verso di Giovanni Giudici: «Se voi non foste non sarebbe il canto») tratto dall’«Odissea» di Omero, come precisa l’autore e traduttore, il giovane, brillante grecista Francesco Morosi, autore di alcune delle ultime traduzioni per l’Inda (e anche drammaturgo nel «Prometeo Incatenato» di Leo Muscato). Un’opera globale, di teatro-musica-danza, che riprende il cuore più avventuroso dell’odissea di Odisseo, quel racconto che lo stesso eroe è chiamato a fare, Omero di se stesso, alla reggia dei Feaci: dall’inganno del cavallo ai veleni di Circe, passando per i Lotofagi, Scilla e Cariddi, la reggia di Eolo, la discesa nell’Ade, la malìa delle Sirene. È più d’un dialogo tra antico e moderno: è prendere temi, figure e archetipi antichi e agirli con linguaggi potentemente moderni, e grazie a strumenti d’eccellenza (e l’Inda questo è: macchina culturale catalizzatrice d’eccellenze).
Al centro di tutto lui, Odisseo «dai molti sentieri» (che è il modo sorprendente in cui si è deciso di tradurre il notissimo «polytropos», epiteto per antonomasia di Odisseo, andando oltre quel «multiforme ingegno» che tutti conosciamo), astuto e spietato eppure capace d’un dolore umano, troppo umano: il trionfatore su Ilio e tessitore d’inganni non vuole che tornare a casa, eppure ogni cosa lo allontana, ogni giorno gli apparecchia un nuovo dolore. Odisseo è Giuseppe Sartori, che in questo stesso luogo è stato Oreste e Edipo, e con la sua ormai riconoscibile cifra – intensità e rigore, potenza e misura, parola che si fa corpo e trascina – mette in scena un eroe grande ma dolente, in cerca di Itaca, di pace. Percorriamo i suoi «molti sentieri» con lui e la sua ciurma-coro (bravissimi tutti, così come i “viaggiatori” e gli allievi dell’Accademia d’arte del Dramma antico), corpo collettivo e mobile che inscena Omero, canta Omero, danza Omero sulla colonna sonora, creata per l’occasione, di Reuben and the Dark: anche quella un insieme creativo e immaginifico di energie folk, percussioni, echi cinematografici, arrangiamenti orchestrali.
In una delle scene più potenti trepidiamo con lui – è anche un immenso romanzo d’avventure, dopotutto, il primo del nostro mondo – quando, legato al palo della nave, sfida il canto delle Sirene: bellissimi i costumi di Valentina Davoli, in questo caso lunghe gonne di taffetà rosso brillante capaci di diventare coda sinuosa e onda di sangue, immagine visiva del canto che avviluppa e ghermisce (gli abiti sono, assieme, simbolo e attrezzo scenico, segno e macchina). Siamo – come lui – sedotti dalla regina fetish Circe (una magnetica Giovanna Di Rauso), dall’ammaliante hostess Calipso (Giulia Fiume, che è anche un’intensa Anticlea, dolorosa ombra della madre di Odisseo). Siamo testimoni del racconto che si fa e si sdoppia sotto i nostri occhi: in scena c’è Odisseo e c’è l’Aedo che lo racconta, un Omero perfetto – cantore e barbone, dropout e veggente – con le sembianze e la voce chiara di Massimo Cimaglia (che è anche Polifemo in una scena articolatissima, in cui i corpi si scambiano, l’azione scenica avviene su più livelli, con un ardimento e un governo del palcoscenico mirabili).
E se il continuo rumore del mare – il «mare pescoso» ma anche il «mare infecondo», risorsa e minaccia (l’attenzione ai preziosi epiteti antichi è uno dei pregi del libretto) – ci viene di continuo dal display luminoso dello sfondo (che è ogni volta pulsante scenografia elettronica), ci mozza il fiato quando è evocato da luci azzurre su un telone agitato da cento mani. E la vediamo, l’odissea di Odisseo, nel teatro-aeroporto, il non-luogo che può diventare ogni luogo: oceano, Ade, nave, antro, palazzo. Fino alla pace riconquistata, e agli applausi meritati a questa regia ardita e immaginifica, bella conclusione del ciclo. O, speriamo, punto di partenza per altre... Itaca. In scena a Siracusa (poi in altre piazze) fino a domani.
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