All’inizio non si può fare a meno di pensare al luna park con quelle case degli specchi in cui la realtà dei nostri corpi viene stravolta, deformata e talvolta “spostata”. Non ci vuole molto a capire che non è così semplice e che l’argentino Leandro Erlich, 50 anni, che con buone ragioni si autodefinisce “artista concettuale”, utilizza la dimensione ludica per portarci verso intriganti giochi della mente in cui «nulla è come sembra», o quasi. La mostra “Leandro Erlich. Oltre la soglia”, promossa da Comune di Milano – Cultura, prodotta da Palazzo Reale e Arthemisia, in collaborazione con lo Studio Erlich e curata da Francesco Stocchi, in programma appunto nel Palazzo Reale di Milano fino al 4 ottobre, è una di quelle esposizioni che puntano a suscitare meraviglia, sollecitando vie di pensiero insolite e facendo percorrere sentieri che vanno oltre la realtà, come siamo abituati a praticarla.
Già il titolo ci annuncia che si varca la soglia della nostra comune percezione e si fa credere al visitatore che ci siano sempre altre possibilità che non siamo abituati a vedere. Erlich si propone come un “agente di disturbo” rispetto alla nostra dimensione quotidiana. Diciannove tra installazioni, sculture e video elaborano un percorso in cui all’inizio il divertimento e la meraviglia sembrano prevalere sul concetto duro e puro di arte. Ma si tratta solo di una crisi – o di passatismo o di superficialità difensiva – perché, andando avanti da un’opera all’altra, si è quasi costretti a riflettere sul fatto che di tutto ciò di cui siamo sicuri può esistere un’altra versione.
A cominciare da noi stessi, perché quando entriamo in un camerino di prova (“Changing”, 2008) oppure in una sala di parrucchiere (“Hair salon”, 2008), lo specchio non ci rimanda la nostra immagine, ma quella di altre persone, innestando un corto circuito tra noi e gli altri che stanno visitando la mostra, non si sa più se accanto, di fronte o di fianco rispetto a noi.
E questo non basta perché ci capita improvvisamente di sbirciare (visti o non visti?) nelle finestre (“The View”, 1997 – 2005) dei vicini di casa (com’è che ci troviamo in un condominio?) oppure nella carrozza della metropolitana (“Subway”, 2009) dopo la nostra (quando siamo saliti a bordo?) o anche di vedere le persone che avevamo vicine giù nella grande scala a chiocciola (“Staircase”, 2005), dove scendere e salire è solo un’illusione ottica.
Già così si può capire come questa mostra – la prima in assoluto di Erlich in Europa dopo i successi ottenuti in Giappone, Cina, Stati Uniti e molti altri Paesi – abbia richiesto un allestimento complesso e difficile da realizzare, soprattutto in uno spazio come quello di Palazzo Reale, molto aperto nelle scelte ma tradizionale nei suoi saloni.
Lui, del resto, tiene a dire di sé: «Mi piace presentarmi come un artista concettuale che lavora nel regno del reale e della percezione. Il mio soggetto è la realtà, i simboli e il potenziale di significato. Mi impegno a creare un corpo di opere che si apra all'immaginazione, sovverta la normalità, ripensi la rappresentazione e proponga azioni che costruiscano e decostruiscano situazioni per sconvolgere la realtà».
Così di decostruzione in decostruzione, si finisce col trovare quasi normale che a un certo punto ci si imbatta in “Port of reflections” (2014), in cui tre barche sembrano galleggiare sull’acqua (che naturalmente non c’è). Ci sono poi i video. Non mi pare che abbiano la forza esistenziale, filosofica e spettacolare di quelli di Bill Viola, il maestro della video art, la cui mostra – alle volte, il caso! – è ospitata in un’altra ala di Palazzo Reale, tuttavia si presentano con spunti originali, in grado di portare a varie riflessioni. “Night Flight” (2015) e “Global Express” (2011) ci mostrano il mondo che “viaggia” davanti a noi o dai finestrini di un aereo in volo notturno o da quelli di un treno sopraelevato, mentre Tokyo, New York e Parigi scorrono davanti ai nostri occhi confondendosi tra di loro.
Tra le sculture colpisce “Traffic jam – Order of importance” (2018), in cui un ingorgo stradale, composto da auto e camion, è ricoperto da una fitta sabbia: uno specie di grido-invito a bloccare il cambiamento climatico. Una segnalazione merita “Classroom” (2017), installazione interattiva che pone il pubblico di fronte a due stanze di proporzioni identiche divise da un vetro. La prima è disadorna, con panche che invitano a sedersi, l’altra è un'aula scolastica fatiscente, chiusa e congelata nel tempo. Quando i visitatori entrano, si riflettono nel vetro e appaiono come fantasmi dall'altra parte: un invito a attingere ai propri ricordi personali e alla propria immaginazione per tornare, da adulti, a una scena archetipica dell’infanzia. Torna alla mente lo spettacolo teatrale “La classe morta” di Tadeusz Kantor, anche se qui ci si specchia da vivi e morto semmai è quel modo di intendere la vita che ci è sfuggito di mano.
Infine, la più spettacolare e ludica delle installazioni, allestita nel cortile interno: “Batiment”, creata nel 2004 per un evento a Parigi, si adatta ogni volta riproducendo le caratteristiche architettoniche della città in cui si trova. L’immagine della facciata di un palazzo è appoggiata a terra e riflessa in un grande specchio inclinato a 45 gradi e quando i visitatori vi entrano appaiono appesi nelle maniere più strane a cornicioni, finestre e balconi. La stessa cosa per “Shikumen”, sempre del 2004. Un grande gioco certamente, ma anche la rappresentazione di quel senso di precarietà che da qualche parte, nella nostra mente, immagina che il mondo d’improvviso ci possa apparire sottosopra.
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