Inauguriamo oggi alcune conversazioni con importanti esponenti della cultura strettese – artisti, scrittori, studiosi nati tra Scilla e Cariddi e diventati protagonisti della scena nazionale, ma rimasti legati alla terra (e al mare) d’origine, che per tutti è fonte d’ispirazione e oggetto-soggetto privilegiato dell’immaginario – a proposito di un progetto che, oltre a tutti gli aspetti di cui da tempo si dibatte (anche se un vero dibattito, allargato alle comunità su cui ricadrà il peso maggiore di questa scelta, non c’è mai stato e continua a non esserci), ha una valenza culturale, estetica, paesaggistica. Il messinese Michele Ainis, costituzionalista di valore, editorialista tra i più autorevoli e scrittore, “strettese” che quando può, torna – anche sulla pagina (ci riferiamo in particolare al secondo dei suoi romanzi, “Risa”, La nave di Teseo, 2018) – sullo Stretto, ne ha parlato con noi.
Parliamo del ponte come oggetto culturale, anzi del ponte realizzato sullo Stretto, un immenso oggetto culturale...
«Io penso che lo Stretto ne abbia tutta la valenza, anzi doppia valenza, perché è parte del patrimonio paesaggistico e parte del patrimonio culturale. Pensiamo soltanto a quanta letteratura si è depositata su questo sfondo, da Omero a D’Arrigo. I beni culturali a loro volta hanno doppia valenza: sono locali, esprimono la cultura e l’animo di un territorio, e trasmettono un messaggio universale, in questo senso lo Stretto non appartiene solo ai messinesi: è un dovere costituzionale dello Stato proteggerlo e non offenderlo, secondo quanto dice l’articolo 9».
Proteggere e non offendere. In che senso, potrebbe essere un’offesa?
«Ne ho scritto come di “una cicatrice nera” la cui ombra oscura la vista. Un’altra volta ho scritto che se la mobilità, interesse pubblico e generale, potesse imporsi sulla tutela della cultura e del paesaggio tanto varrebbe fare un ponte sul Colosseo...».
Ma il vantaggio per la comunità – il vantaggio economico di cui tanto si parla, anche se non con la chiarezza che tutti vorremmo – non prevarrebbe?
«Se io sulla Gioconda disegno una barra verticale non l’ho distrutta, ma l’ho deturpata. Poi bisogna aggiungere che fin dagli anni 80 la Corte Costituzionale ha qualificato l’interesse culturale come primario, quindi che viene anche prima dei valori economici... E poi, se io per fare cassa vendo il Colosseo ai cinesi…».
Lei ha scritto tre romanzi in cui il mare ha un ruolo importantissimo: è sulle sue rive che tace l’inquietudine dei suoi personaggi, che è il tratto comune fra tutte e tre le storie (una delle quali, in «Risa», è ambientata nella sua Messina). Cos’è il mare, e lo Stretto?
«Il mare ti consente uno sguardo lungo, a distesa sulle cose del mondo. Che è importante, in un tempo in cui siamo immersi in un eterno presente, senza retrospezione né abbastanza proiezione. Allora lo Stretto è uno sguardo lungo ma circoscritto, è una fabbrica di valori esistenziali. Qui a Messina il mare avrebbe questa proiezione di sguardo lungo, ma che non si disperde sull’orizzonte, eppure se lo vieta, perché gran parte del lungomare è chiuso, non accessibile: l’impegno dei messinesi dovrebbe essere di togliere il sovrappiù...».
Lei ha scritto un intero romanzo su una città che, letteralmente, “perde pezzi” ma nessuno sembra accorgersene. Sembra una metafora perfetta per una città che ha come suo rovello la memoria, e l’identità, che sulla memoria si fonda. E c’è chi parla del Ponte, appunto, come occasione identitaria...
«Ma si potrebbe ritrovare il senso di un’identità che si avverte smarrita, per ragioni storiche e culturali, se si diffondesse la consapevolezza che i messinesi sono già possessori d’un tesoro culturale: difendendolo ritroverebbero questa identità. Nel mio romanzo le cose e la memoria di Messina non scompaiono: si trasferiscono nella città sommersa di Risa, che è il “doppio” di Messina. La città sommersa è l’altra possibilità di essere, è quello che potevi essere, che potresti ancora essere».
Cosa augura alle comunità strettesi?
«A volte dal male nasce il bene: che questa possibile sciagura possa essere occasione di recupero di identità e orgoglio perso perché fiaccati e delusi. Non si tratta di contrastare il ponte, ma di riscoprire le ragioni del tuo stare al mondo, questo pezzo di mondo».
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