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Esiste il «Mal di Libia». Parola di Nancy Porsia

Un lungo viaggio nella Libia, un paese pieno di contraddizioni, ma anche percorso da ansia di giustizia sociale e politica, sempre nel cuore di Nancy Porsia, giornalista indipendente esperta di Medio Oriente, autrice di reportage da Siria, Libano, Iraq, Libia, Tunisia, Eritrea ed Etiopia e di «Mal di Libia. I miei giorni sul fronte del Mediterraneo» (Bompiani), un diario di guerra (dedicato a Dumi il combattente per la libertà, morto di Libia, e ad Ahmed e Mohamed morti in mare d’Europa) che tra flashback e materiali di archivio ci guida nella complessa situazione libica post gheddafiana e nella intricata questione del traffico dei migranti.

È pronta per partire per la sua prima volta in Libia, nell’ottobre 2011, quando in un paese in piena rivoluzione i ribelli di Misurata uccidono Muammar Gheddafi. Un appuntamento mancato per lei, desiderosa sin da ragazza di andare nei luoghi di guerra (è a Damasco, a studiare arabo quando nel 2006 viene impiccato Saddam Hussein) per capire i conflitti da vicino. Dunque, eccola di base a Tripoli dove insieme a traduttore e fixer (chi cerca i contatti in loco per i giornalisti, perché – scrive – i giornalisti «non sono rabdomanti sensitivi, le storie non le trovano da soli»), si muove in quello sterminato territorio che dopo la ritirata della Nato viene abbandonato da giornalisti e fotografi, ma non da lei.

Impara che la Cirenaica è sinonimo di dissidenza, è lì che convivono pezzi di tutte le tribù libiche che non si sono mai piegate al dittatore, sa che ci sono tanti gheddafiani latitanti, grazie alle persone con le quali stringe preziosa amicizia conosce i quartieri dove c’è spaccio di droghe e alcol e sesso e capisce la natura di un conflitto, in una società chiusa, che appare sociale prima che politico.

Vive sulla sua pelle e dei suoi amici rivoluzionari il passaggio dalla brutalità del regime alla violenza sfrontata dei giovani miliziani che inondano le strade di kalashnikov. Nonostante i proclami di democrazia della Nato, la Libia libera ma instabile viene abbandonata dall’Occidente, e la rivoluzione si trasforma in guerra civile con gruppi armati fuori controllo a cui viene affidata la sicurezza. E quando nel febbraio 2015 lo Stato Islamico issa la sua bandiera sulla spiaggia di Sirte, prima regno di Gheddafi, è una nuova guerra nella guerra, che spinge tanti attivisti e difensori dei diritti umani, speranzosi nel processo di democratizzazione fallito, ad abbandonare un paese devastato e impoverito anche affidandosi a chiunque faccia attraversare il mare.

Porsia è lì, a vivere da vicino la tragedia epocale delle migrazioni, visita i campi profughi e le carceri colme di migranti in condizioni estreme, dove il corpo femminile è sempre il più offeso, parla con trafficanti e passatori, demistifica il cliché europeo del trafficante cattivo, conquista pezzi di verità (anche se – scrive – facendolo ti rendi conto di quanto sei inutile) e in una sua inchiesta del 2016 denuncia gli “affari” dei veri capi del traffico dei migranti e la collusione di guardia costiera libica e trafficanti di esseri umani. Con tutti i rischi e le conseguenze che la costringono nel 2017, nonostante il “mal di Libia”, a lasciare il paese, incinta del suo compagno libico.

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