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“Bizzarro”, geniale e moderno: El Greco in mostra a Milano

Quel suo stile “metafisico” coi corpi allungati e i colori acidi riscoperto nel Novecento

Chi era El Greco? Un pazzo? Faceva comodo crederlo, anche per il suo carattere non proprio accomodante. Ma contemporanei e posteri hanno fatto a gara a trovare ragioni più banali che strane per giustificare la sua pittura, così diversa da quella del suo tempo: drogato, presbite, astigmatico, mistico, omosessuale e altro ancora. Tutte balle, naturalmente, ma sufficienti per tenerlo ai margini delle corti reali in vita (però in buone condizioni economiche, grazie a una fiorente bottega) e nel dimenticatoio dopo. È stato il Novecento a ridargli il giusto posto nella storia dell’arte (come è capitato al suo coevo, totalmente diverso, Caravaggio) e a considerarlo tanto avanti da farne un vero e proprio precursore di quella pittura che, scalzata dalla fotografia nella riproduzione del vero, cerca nuove strade espressive. Quelle necessarie per proporre dalla fine dell’Ottocento la figura umana in nuove versioni che passano dalla psicologia, dalla scomposizione dei corpi, dalle tensioni esistenziali.

El Greco, soprannome di Doménikos Theotokópoulos (Candia, isola di Creta, 1541 – Toledo, Spagna, 1614), oggi considerato uno dei più grandi pittori mai esistiti, ispiratore con i suoi corpi allungati di Egon Schiele, Francis Bacon e addirittura anche di Picasso, è il protagonista della bellissima esposizione ospitata nel Palazzo Reale di Milano fino all’11 febbraio. La mostra “El Greco”, promossa dal Comune di Milano Cultura e prodotta da Palazzo Reale e MondoMostre, è curata da Juan Antonio Garcia Castro, Palma Martínez-Burgos García e Thomas Clement Salomon, con il coordinamento scientifico di Mila Ortiz, ed è affiancata da un pregevole catalogo, edito da Skira.

Quarantuno le opere del pittore, con presenze anche di Tintoretto, Tiziano, Bassano e altri. Il percorso espositivo segue il filo cronologico della vita dall’artista, da insoddisfatto pittore di icone nella natia Creta a Venezia, dove arriva nel 1567, impara la lezione della prospettiva, ma soprattutto quelle del colore da Tiziano e Tintoretto e della luce da Jacopo Bassano. Poi i passaggi da Mantova (ammira Giulio Romano) e Parma (scopre il Parmigianino e Correggio) e quindi Roma, dove s’illude di poter trovare il successo. Il miniaturista Giulio Clovio lo raccomanda al cardinale Farnese che sembra accoglierlo ma poi lo sfratta senza spiegazioni. Fra lettere e aneddoti falsi e veri, questo periodo rimane piuttosto oscuro, tanto più che – forse – anche El Greco ci metteva del suo.

Nasceva lì l’idea d’un pittore che fosse anche filosofo (di certo era un intellettuale), ma che qualcuno trasformò in mistico se non addirittura in nevrastenico. Probabilmente l’insuccesso romano fu provocato dai suoi taglienti giudizi sulla pittura di Michelangelo (che pure ammirava), tanto da candidarsi a rifare gli affreschi della Cappella Sistina, al tempo in cui si volevano coprire le nudità. Troppo per Farnese, per il quale Michelangelo era un intoccabile, anche considerando falsa la celebre frase attribuita a El Greco: «Michelangelo? Un brav’uomo, ma non sa dipingere».

Così Doménikos si trasferisce in Spagna, convinto di poter entrare nelle grazie di Felipe II, che invece lo ignora. Dal 1577 si ferma a Toledo, grande città ma periferica rispetto alla corte, e qui comincia una sicura carriera di pittore della Controriforma, che in quel momento era al centro del cattolicesimo. Si mette al servizio della Chiesa, ma lo fa alla sua maniera. Come anche nei ritratti, esprime una pittura che passa dalla psicologia (allora sconosciuta come scienza) dei personaggi, dalle loro emozioni, da gesti e movimenti che al tempo apparivano estremi. Lui stesso scrisse che la pittura, oltre a essere «la più intellettuale» era anche la più perfetta delle arti perché «si prefigge di rappresentare tutto» e anche «si occupa dell’impossibile».

Nasce quello stile così moderno, metafisico, in cui i corpi si allungano, gli sguardi si perdono, le tele si affollano, i colori diventano acidi (perfino i grigi), il segno si assottiglia, le proporzioni e i confini smarriscono la logica razionale. Attraverso l’idea di una tensione religiosa verso l’assoluto, El Greco riproduce invece un suo mondo immateriale e parallelo, sa cos’è l’inconscio in un tempo in cui questo vocabolo è sconosciuto, esce dal reale per dare volto ai pensieri e ai desideri. Quegli sguardi non sono perduti nel vuoto o nel misticismo, ma vedono oltre, esprimono il desiderio dell’artista di superare i nostri confini e illustrano la percezione che tanto altro sia possibile anche se non ci arriviamo con la nostra percezione umana.

Quanto basta perché nel Settecento lo storico spagnolo Antonio Palomino (che pure considerava El Greco un buon pittore) scrivesse: «Vedendo che i suoi dipinti venivano scambiati per opera di Tiziano, cercò di mutare stile con tale stravaganza da rendere disprezzabile e ridicola la sua pittura, sia nella disarticolazione del disegno sia nell’asprezza del colore». Stravagante lo era davvero El Greco, ma nel senso che ebbe la capacità di uscire dai confini per entrare nell’insolito. Nella mostra milanese, sono molte le opere che testimoniano questa “stravaganza”: dal «Battesimo di Cristo», che da sola vale una visita, a «San Martino e il mendicante», «L’incarnazione» o «Annunciazione», «Adorazione dei pastori» e molti altri.

Alla fine l’esposizione mette «Laocoonte», l’unica opera in cui El Greco ritrasse un soggetto mitologico. Le posizioni eccentriche dei cinque corpi nudi ritratti, la potenza energica della tela sembrano compendiare tutti i misteri della mente precorritrice e visionaria di El Greco. E, incredibilmente, ci sembra che dai quei corpi, in parte disarticolati, sia nata la pittura di Picasso.

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