A sette anni dal successo di «Le ragazze», romanzo d’esordio del 2016, Emma Cline, talentuosa giovane scrittrice californiana, nota anche per «Harvey», il lungo racconto in cui guarda all’America attraverso la voce narrante che segue Harvey Weinstein a ventiquattr’ore dal processo a suo carico, torna con «L’ospite» (Einaudi, traduz. di Monica Pareschi), una storia di raggelante tristezza sin dal titolo, ambiguo quanto il termine stesso.
La ventiduenne Alex, «abbastanza alta e magra da sembrare bella», un’esistenza marginale che pare senza passato e senza famiglia, ospite anche della vita (ora gradita ora sgradita come avviene alla maggior parte degli ospiti), condizione di cui sembra continuamente scusarsi, arrivata «in città», a New York, presumibilmente dalla profonda provincia americana, trascorre il suo fragile tempo a perdersi: da un’ora all’altra, da un uomo all’altro, da un bar, da un hotel, da una casa all’altra, tutto provvisorio, il sesso come passepartout per una piccola vita da vivere alla giornata, tra espedienti che le fanno il vuoto attorno.
Ma dopo la breve storia con il piccolo criminale Dom, Alex, che ha la “fortuna” di capire l’ “interesse” nello sguardo di certi uomini, conosce il ricco Simon, trent’anni più grande di lei, che la “ospita” nella sua villa di Long Island. Non sono poi molto diversi, lei e Simon, perché entrambi conducono «il gioco di convincere gli altri che le cose abbiano un certo valore», e poi la vita da “ospite”, compresi i vestiti raffinati comprati da Simon, perché faccia la sua “figura” in ambienti inaccessibili ai più delle persone, riesce bene ad Alex per la docilità con la quale si adatta a tutto, e del resto per spacciarsi per ciò che non è «basta trasformarsi in vapore in modo che le cose la attraversino meglio». Sino alla sera in cui a una festa, per un «impulso malato e allo stesso tempo ineccepibile» conosce Victor, altro ricco abitante degli Hamptons, nel cui sguardo riscontra «quello scarto minimo di energia, di riconoscimento reciproco». Fanno un tuffo insieme in piscina, una cattiva idea che ha come conseguenza per Alex di essere messa alla porta da Simon.
Seguono cinque giorni di sospensione (resi benissimo dalla tensione narrativa della Cline fino all’epilogo) in cui Alex «si muove con inerzia da un momento all’altro, da una sensazione all’altra, in cui prende atto dei fatti e li mette da parte», illudendosi che «la propria vita abbia un valore».
Cinque giorni da far passare prima della festa del Labor Day nella villa di Simon dove sogna di ripresentarsi; intanto, senza risorse, la borsa con i vestiti sempre stretta a sé, si muove randagia «come il fantasma che aveva sempre immaginato di essere», tra luoghi di «un’abbondanza che ha qualcosa di intossicante», tra totem domestici e situazioni di «prevedibile sceneggiatura sociale», tra figli e genitori «che non si parlavano ma erano uniti da un fatto primordiale, la famiglia», e il mare con cui spesso ha voglia di fondersi per dimenticare la schifezza del mondo.
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