«Non è un libro sulla scuola anche se parla di scuola, non è un libro di denuncia sociale anche se sono rappresentate le periferie più degradate. È un libro poetico perché riesce a trasformare le realtà più crude con una limpida narrazione». Così scrive Cesare Moreno, presidente dell’Associazione Maestri di Strada onlus di Napoli, e curatore di «Insegnare al Principe di Danimarca», il bel libro di Carla Melazzini, “maestra di strada” e sua moglie, scomparsa nel 2009. Edita da Sellerio in una edizione accresciuta, con una nota dell’italianista Claudio Giunta, è un’innovativa raccolta di racconti cresciuti assieme al Progetto Chance, nato a Napoli nel 1998 come contrasto alla dispersione scolastica di adolescenti con situazioni di forte disagio sociale, a cui Roberto Saviano ha dedicato l’Orso d’Argento per il film «La paranza dei bambini». Un’avventura straordinaria ideata dalla Melassini assieme a Moreno e ai docenti Marco Rossi Doria e Angela Villani, e che è coincisa con un cambiamento radicale della loro vita. Carla, studi classici e una profonda conoscenza della grande letteratura, era stata allieva della Normale, poi lasciata (si sarebbe laureata all’Università di Pisa) perché, come Moreno (che dopo aver studiato brillantemente Fisica a Pisa, decise di diventare maestro elementare), era insofferente dei privilegi. Insieme sono diventati insegnanti di «normale umanità» con un nuovo mestiere, quello di maestre e maestri di strada, per offrire a chi insegna l’opportunità di ripartire dal grado zero della parola. «Incontri antropologici» tra San Giovanni a Teduccio, Ponticelli e Barra, quartieri “difficili” dell’area orientale di Napoli dove bisognava riparare qualcosa di più complesso che la dispersione e gli insuccessi scolastici. E questo libro affronta con lucidità questioni cruciali dell’educazione, senza fare sconti all’istituzione scolastica o a certa retorica democratica, o a chi, pur con buone intenzioni, si occupa del “diverso” o dell’altro” («accezioni che rischiano di creare dei cortocircuiti anche se danno lustro a pronunciarli, perché il primo diverso sono i nostri figli», scrive Melassini, che aborriva le idealizzazioni, anche quella dei poveri di certa ideologia di sinistra). Professore, come si diventa maestri di strada dopo studi alti e impegnati? «Per la mia esperienza so che le persone di più profonda cultura umanistica vivono con maggiore facilità questo passaggio. La conoscenza profonda di quelli che Carla chiama gli esploratori dell’abisso, come Dante, Shakespeare, Dostoevskij, Freud, Leopardi, Conrad, Tolstoj, le ha permesso di affrontare l’umano anche nelle situazioni di degrado. Lei non si è sacrificata, la sua non è stata una scelta di ripiego, non si è trattato di altruismo ma di realizzazione». E nella concreta quotidianità cosa bisogna fare come maestri di strada? «Bisogna occuparsi della manutenzione dell’essere umano. Che, come tutto, è soggetto a usura e quindi bisogna aiutarlo a rifarsi delle energie. Noi mettiamo in pratica la multivisione, una tecnica inventata dallo psicanalista Wilfred Bion, studioso delle dinamiche della psicoterapia di gruppo, per rimettere in piedi psichicamente gli ufficiali in guerra. E che è diventato un paradigma educativo per affrontare realtà traumatiche. Ogni settimana tutti gli operatori di Chance si riuniscono per parlare e sostenersi, prima di aiutare ragazze e ragazzi, bambine e bambini “poliproblematici”. Questo libro è il resoconto di quegli incontri settimanali». Un passaggio importante del libro è quello sulla didattica della parola, che dovrebbe essere una pratica di tutta la scuola italiana… «La parola per Carla e per noi ha un valore fondante. Non è un diritto acquisito ma da conquistare insieme, un processo quasi primario per l’alunno e una riconquista del senso delle parole per il docente. Bisogna partire dal grado zero della parola e dall’ascolto prima di iniziare il dialogo. Dopo 11 anni il progetto pubblico di Chance, promosso dal Ministero e dal Comune di Napoli, è terminato ma noi lo abbiamo continuato con il sostegno di privati. Abbiamo una nostra sede in cui accogliamo dando spazio soprattutto a laboratori (le attività artistiche sono le forme espressive più “facili”) ma andiamo anche nelle scuole con l’accordo di scuole e insegnanti. Nei giorni scorsi a Empoli 50 bambini di una scuola primaria, dopo le prime esitazioni, hanno preso per primi la parola con una profondità che ha meravigliato gli insegnanti». Il testo letterario – scriveva Melassini – rimane il principale deposito di significati, con l’uso della metafora come strumento per raggiungere «le periferie dell’animo degli adolescenti». Uno strumento che viene proprio da quella scuola classica severamente giudicata da Carla… «Sì (sorride), lei ci andava giù duramente, ma era consapevole dell’importanza della preparazione umanistica. A ragazzi che vivono in prima persona le tragedie della cronaca, ai “senzastorie”, non puoi parlare dell’attualità ma è più utile una fiaba, una metafora. Penso a quanto “La metamorfosi” di Kafka con il racconto dello scarafaggio, “’o scarrafone”, avesse impressionato i ragazzi di Chance». Secondo lei la scuola italiana come sta? Eppure ha tanti pregi… «Quel che c’è di buono è affidato agli insegnanti che ancora resistono, ma anche quelli diminuiscono sempre più, manca un impianto metodologico e una struttura organizzativa e le politiche scolastiche peggiorano sempre di più, come dimostrano quelle di questi giorni». Si riferisce, certamente, al Piano di “Educazione alle Relazioni”. Cosa ne pensa? «È una cosa ridicola. Le relazioni si praticano, la democrazia si pratica, e invece noi stiamo perdendo le esperienze di convivenza civile a cominciare dalla coppia. A proposito della tragedia di Giulia, l’unico aspetto positivo è che ne stiamo parlando. Ma non si possono affrontare certi disagi psichici, aumentati dopo il covid, senza un aiuto specialistico; la scuola può fare molto mettendo in primo piano la libertà di pensiero, il rifiuto dell’obbedienza a tutto, dalla droga alla violenza domestica. Collaboro stabilmente con un centro antiviolenza e noto che si ritorna sempre dal proprio aguzzino. Se l’uomo è un animale sociale deve soccorrere e farsi soccorrere, bisogna perciò rinforzare una socialità positiva contro una socialità chiusa. Ma la situazione femminile è molto grave, è sotto gli occhi di tutti: un uomo può attraversare un parco di sera, una donna no».