Il piccolo Asclepio corre felice, nei prati erbosi del Pelio, ignaro del suo futuro di gloria, come del suo passato luttuoso. Apre le braccia e riversa il capo all’indietro, ridendo, senza un preciso motivo. È pago di esistere, come sempre lo sono i bambini. Gira in tondo sotto una quercia frondosa e offre il viso ai raggi del sole che filtrano tra le chiome degli alberi. Diventerà un dio guaritore il figlio di Apollo, sulle orme del padre; suggerirà in sogno il prognostico della malattia a chi si addormenterà nel suo tempio e sarà tanto potente da ridare la vita a chi è morto. Chirone lo sa; presto avvierà in prima persona il bambino a quell’arte, insegnandogli a pestare le erbe e a trattare le ferite col vino.
Il centauro maestro di eroi si è affezionato al piccolo da quando Apollo lo ha portato sul monte perché lo educasse, dopo averlo tratto dal grembo materno, sottraendolo al rogo. Lì bruciava, già morta, la madre che non lo ha potuto conoscere, la bellissima Coronide, dalle guance di giglio appena soffuse di un luminoso rossore.
In Tessaglia odiano il corvo. Se quell’uccello maledetto non si fosse affrettato a fare la spia, ora Coronide terrebbe fra le braccia il suo piccolo Asclepio. Le ancelle le annoderebbero le trecce appuntandole sul candido collo e Cleofema si inorgoglirebbe vedendola incedere, lei, sua figlia, oggetto dell’amore di un dio! «Maledetto corvo – dicono quelli in Tessaglia –, persino Apollo ti ha maledetto privandoti del tuo bianco piumaggio, condannandoti a un lutto perpetuo. Maledetto Ischi, che ti sei messo in mezzo. E tu, Coronide, come hai potuto preferire un mortale? È la paura di invecchiare che ti ha indotto a farlo, l’orrore di non essere, un giorno, più gradita al tuo amante, giovane e bello in eterno?»
Chirone sospira, distoglie gli occhi dal bimbo, guarda lontano. Pensa ad Apollo, così bello e così sfortunato in amore. Per avere Cassandra, le aveva donato il privilegio della profezia, ma la figlia di Priamo, ingrata, lo aveva respinto. Il dio, adirato, le aveva sputato sulla bocca, condannandola così a non essere mai creduta. E lei, rifiutato Apollo, era stata esposta alla violenza di Aiace, la notte della presa di Troia, ed era caduta vittima della vendetta di Clitemestra, giunta in Grecia con Agamennone come premio per la vittoria del re.
Un’ardente passione il dio aveva nutrito per Dafne, la ninfa figlia del fiume Peneo; ma la Naiade, consacrata alla dea vergine Artemide, si era slanciata in una corsa estenuante per sfuggire all’inseguimento di Apollo e infine si era mutata in albero, pur di evitare il connubio con lui. Perché la giovane non aveva ascoltato le appassionate parole del dio, pensava ancora Chirone? La prova del suo amore era quella corona d’alloro di cui Apollo si cingeva le chiome e con cui si premiavano condottieri e poeti. Non aveva avuto Dafne, ma avrebbe avuto per sempre la pianta, sacra al suo nume.
E infine lei, Coronide, che a differenza delle altre ricambiava il suo amore: così, almeno, sembrava, finché non si invaghì del principe arcade Ischi e quel corvo loquace, che Apollo le aveva lasciato a custodia prima di partire per Delfi, ligio al proprio dovere, non volò dal padrone per fare la spia. Rabbrividisce, il centauro, mentre le immagini di ciò che seguì gli si affacciano in successione alla mente: il dio furente per il suo onore violato, la freccia incoccata sull’arco infallibile, la bella carne della ragazza sfregiata dal colpo, la pira innalzata per bruciare il cadavere, dopo che Apollo in persona ha estratto dal ventre gravido della morta il corpicino di Asclepio. Tutto questo non sarebbe successo se solo lei avesse continuato ad amarlo, sospira Chirone; e ugualmente, se non avessero respinto l’amore del dio, Dafne muoverebbe sinuosa le belle membra nei fiumi e forse anche Cassandra avrebbe avuto una sorte diversa, al riparo da tanta violenza.
Come sarebbe viva anche Giulia, aggiungerebbe Filippo, se non si fosse sottratta, se fosse rimasta al suo fianco: si sarebbe laureata (rigorosamente dopo di lui, per rispettare la gerarchia); avrebbe abbracciato gli amici nel giardino del dipartimento di Ingegneria (in cui il rosso di una panchina, come una ferita aperta, conserverà invece il ricordo della sua vita stroncata); avrebbe portato la corona d’alloro (simbolo del traguardo raggiunto, eppure, in quella fronda simbolicamente si snoda la storia di persecuzione e di morte di tante donne), con l’unica ombra che la madre non fosse con lei ad aggiungere luce a quella giornata.
Ma Giulia, diciamo noi, non ha assecondato Filippo e adesso per aver detto di no non è che un nome: scritto a caratteri di fuoco su uno striscione, gridato in mille proteste di piazza, inciso dolorosamente nel cuore. Il nome numero centroquattro di centodieci nomi di donne, rimaste invischiate in un rapporto malato e uccise dal presunto amore dei loro uomini in questo 2023 non ancora alla fine.
Veniamo da una tradizione che ha legittimato per secoli l’autorità maschile sulla donna. Siamo eredi di un mondo classico che raccontava storie di donne braccate, rapite, stuprate e legittimava la loro subordinazione in nome di un’inferiorità naturale, trasformando il sociale in biologico («La relazione che sussiste tra il maschio e la femmina è per natura quella di chi è migliore verso chi è peggiore, di chi comanda verso chi è comandato», scriveva il filosofo greco Aristotele). Siamo parte di una cultura che ha punito con una museruola di ferro e il ludibrio pubblico la donna che parlava troppo, dando fastidio all’autorità maschile; e se questa sanzione dolorosa e mortificante non si è applicata oltre il XVIII secolo, la mordacchia della coercizione morale non ha per questo cessato di esistere. Una persistente mentalità patriarcale, la nostra, che diventa esplosiva quando entra in sinergia col sentimento di una generazione di giovani iperprotetti, sempre meno capaci di accettare un rifiuto e di elaborare il dolore.
La vicenda di Giulia ha scosso le coscienze: per la giovane età dei protagonisti, per la violenza dell’esecuzione, per la storia personale della ragazza, già segnata dal lutto; sull’onda dell’emozione, si scende in piazza, si prospettano strategie educative, si mettono in cantiere nuove misure di legge. La lotta contro la violenza alle donne sembra ora la lotta di tutti. Diventiamone parte attiva, senza allentare la tensione quando l’emozione di questi giorni si sarà intorpidita.
Tre anni fa un’altra giovane donna fu uccisa barbaramente dal compagno: si chiamava Lorena, stava per laurearsi nell’Ateneo di Messina (la laurea le è stata conferita dopo la morte, come sarà per Giulia), sognava di diventare pediatra. Uniamo le forze perché non ci siano più né Giulie né Lorene a cui la violenza di un uomo possa strappare i sogni. Uniamo le forze perché “non una di meno” resti fra noi di queste giovani donne che si aprono fiduciose alla vita.
*Di Anna Maria Urso. Professoressa di Filologia classica e di Storia del teatro classico Università di Messina
Caricamento commenti
Commenta la notizia