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Sebastiano Lo Monaco e quella passione pirandelliana

Come mi suona strano scrivere al passato di Sebastiano Lo Monaco, un attore con cui ho condiviso tante (sue) esperienze teatrali, al quale non ho mai lesinato né critiche né elogi, in un lungo cammino fatto di spettacoli (suoi) e recensioni (mie). La sua scomparsa, a soli 65 anni, mi priva di una consuetudine antica se non di un’amicizia, consolidata dalla forza delle discussioni e delle divergenze. E anche dalla sua costante presenza sui palcoscenici di Messina, culminata con la direzione artistica dell’Ente Teatro dal 2000 al 2003.
Critiche perché nella sua evidente ricerca della perfezione si prefiggeva un traguardo impossibile (per chiunque) e, soprattutto, ricorreva a mezzi funzionali ad attirare il pubblico, ma in qualche maniera anche fonte di distrazione come era l’abitudine di accompagnarsi in scena con la “grandi vecchie” del teatro italiano Paola Borboni e Alida Valli. Donne che erano uno spettacolo nello spettacolo e che, in qualche maniera (specie la prima), rappresentavano solo se stesse, capaci di distrarre lo spettatore anche dalle qualità del capocomico (termine diventato desueto, ma questo era Lo Monaco).
Lui, in un’intervista del 2015, mi disse: «Mi hanno insegnato il grande coraggio, quello che ci vuole oggi per continuare a fare teatro. L’attore è diventato l’ultima ruota del carro, un oggetto da collocare dove e se serve; quindi è diventato un questuante». Analisi terribilmente lucida. Critiche anche per alcune sue scelte di registi da cui farsi guidare (o che lo lasciassero libero di muoversi come voleva?), come fu Mauro Bolognini, decisamente più bravo al cinema.
Da una regia firmata da Bolognini nacque con Sebastiano una discussione epocale, anche se sempre garbata nei toni. Era il 1993, lo spettacolo era «Il berretto a sonagli» e il titolo – eloquente – della mia recensione in Gazzetta del Sud era «Povero Pirandello, vittima di un “ascesso” di comicità». In realtà avevo trovato inaccettabile la maniera troppo farsesca con cui un pur ottimo attore come Giustino Durano aveva tratteggiato il ruolo del delegato Spanò. La recensione, me lo raccontò Lo Monaco senza astio (e questo fa capire che persona era), fu utilizzata da due componenti della commissione che assegnava i contributi ministeriali per proporre una drastica riduzione di quelli riservati alla compagnia.
Parliamo degli elogi adesso. Meritati perché era evidente la sua voglia (controcorrente già negli anni Novanta, figurarsi dopo) di mettersi alla pari con i grandi interpreti pirandelliani, non quelli roboanti o sofisti nell’atteggiamento di presunzione, ma piuttosto come i suoi corregionali (Lo Monaco era nato a Floridia, Siracusa) Salvo Randone e Turi Ferro, capaci di recitazioni asciutte e folgoranti. Ecco, su questa strada Sebastiano ha fatto passi da gigante e non a caso i suoi spettacoli facevano il tutto esaurito in ogni parte d’Italia. Anche perché nel frattempo aveva fatto ricorso a registi maggiormente in grado di guidarlo, come Roberto Guicciardini e anche Giuseppe Patroni Griffi. Quando vidi, nel teatro Carcano di Milano, il suo «Enrico IV» era il 2001 e scrissi: «Volendo potrebbe intitolarsi “Io e Pirandello”, visto come Sebastiano Lo Monaco sembra psicosomatizzare il drammaturgo, suo illustre conterraneo. Gli somiglia perfino fisicamente e appare evidente come, quando sceglie un suo personaggio, cerca di entrare, anche con dolore, nella testa e nel cuore dell’autore (…) Personalmente non vedevo recitare l’attore di Floridia da alcuni anni e l’ho ritrovato enormemente maturato, davvero in grado di dare un’impronta personale anche a un personaggio così teatralmente “battuto” da tanti grandi come è Enrico IV».
Lui ripeteva spesso, come suo personale mantra: «L’attore non si maschera, si spoglia», e la cosa apparve evidentissima in quello spettacolo, in cui la sovrapposizione tra attore e autore, l’assenza di confini smascherava completamente la persona molto prima che il personaggio.
Era davvero diventato un grande attore, ma a modo suo. Anche se Lo Monaco amava tornare a recitare nelle rappresentazioni classiche della “sua” Siracusa con interessanti risultati, pur ricordando eccellenti caratterizzazioni nel cinema e in tv, è rimasto Pirandello come esempio della sua arte, o anche l’interpretazione di Eddie Carbone in «Uno sguardo dal ponte» di Miller. «Enrico IV» e «Uno sguardo dal ponte» nacquero come produzioni del Teatro di Messina, anche se proprio il secondo fu la causa di un divorzio anticipato, finito in tribunale. Lo Monaco non aveva tutti i torti, tanto che poi nel 2017 tornò a recitare nel Vittorio Emanuele (sono testimone della sua felicità di quella sera) con «Per non morire di mafia», grande spettacolo di impegno civile tratto dall’omonimo libro di Pietro Grasso.
Ma una cosa ancora è doveroso dirla: nel periodo della sua direzione, l’attore batté in lungo e in largo la provincia di Messina, dalle scuole ai circoli e alle associazioni, per portare pubblico a teatro. Raccolse così oltre quattromila abbonati e ricordo i pullman che due giorni alla settimana portavano gli spettatori da vari centri della provincia. Forse sbaglio, ma credo che nessuno, né prima né dopo, abbia fatto uno sforzo di queste proporzioni. Per quanto, come accadeva e accade per tutte le compagnie, i contributi statali sono questione di vita e di morte, la polvere del palcoscenico era per lui la vera ragione di vita. Prima di ogni cosa.

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