E’ un’incisione di 14 centimetri per 17, esposta accanto alla sua matrice. Luccica nell’oscurità di un allestimento che mette in evidenza ogni opera in tutti i particolari. Il titolo è “Stragi di guerra” e fa parte della serie “Disastri della guerra” che Francisco José de Goya y Lucientes, conosciuto semplicemente come Goya (1746 – 1828), realizzò tra il 1810 e 1814. La scena è tragica: una casa dopo un bombardamento (dei francesi occupanti), dove donne e mobilio sono stati scagliati in aria, senza che per chi ha bombardato ci sia differenza tra umanità e oggetti. A fronte dell’ammirazione per il realismo artistico della scena (che ha ispirato il celebre “Guernica” di Picasso), in grado di riprodurre anche i sentimenti di ribellione di chi è rimasto vivo, colpisce la sensazione di ritrovarsi davanti alle immagini delle vittime civili che ogni giorno ci arrivano in casa dalle guerre vicine, in Ucraina come in Medio Oriente. Tutta la stolidità del bellicismo racchiuso in pochi centimetri, un pugno allo stomaco che ci viene dal passato per farci capire come l’umanità reiteri i propri disastri, proprio la parola utilizzata da Goya.
Accade così – e non solo per questa ragione – che una mostra che alla vigilia qualcuno considerava minore per l’assenza dei grandi capolavori del Prado, a cominciare dalla “Maya desnuda” fino alle finali “Pitture nere”, riveli un livello espositivo di grande valore perché ci fa vedere l’anima e la ragione di questo genio, la sua capacità di esprimere critica sociale e vicinanza al disagio, da figlio dell’Illuminismo pronto a cogliere anche tutte le correnti di pensiero e d’arte che arrivano e anzi capace di precorrerle. Palazzo Reale a Milano presenta, fino al 3 marzo, la mostra “Goya. La ribellione della ragione”. Il progetto,promosso dal Comune di Milano-Cultura e prodotto da Palazzo Reale e 24 ORE Cultura-Gruppo 24 ORE, in collaborazione con la Real Academia de Bellas Artes de San Fernando di Madrid, è curato da Victor Nieto Alcaide e racconta attraverso dipinti, incisioni e matrici in rame, appena restaurate, il mondo di Goya, il suo essere pittore di corte e quindi di successo e contemporaneamente il suo disagio per essere “costretto” in forme accademiche, nettamente in contrasto con la sua attitudine di artista, il suo pensiero e la sua ideologia.
Il percorso espositivo, formato da una settantina di opere, mettendo in dialogo dipinti e incisioni, dimostra come non sia del tutto esatto parlare di un prima e di un dopo nell’arte di Goya, come se esistesse un confine, magari acuito dalla sordità seguita nel 1792 a una malattia, ma piuttosto di una “convivenza” tra il desiderio e la necessità di un successo conclamato e l’urgenza, interiore e profonda, di dare espressione alla sua voglia di andare oltre il già visto, di cercare nuove strade, quelle che lo hanno portato a essere considerato un precursore financo dell’espressionismo e del surrealismo. Mentre lavorava alla corte di Carlo IV, nel 1788 Goya scriveva all’amico Zapater: «… Ciò che mi manca è il tempo da dedicare alle cose di mio gusto». La mostra dà conto di questa dualità e se non presenta i capolavori più famosi, ha comunque capolavori. La sala dei ritratti, per esempio, è fulgida d’arte sia in quelli più accademicamente scontati eppure espressione di un vitalismo importante, sia negli altri che sono molto lontani dai ritratti del re e della regina, come, per esempio, quello dell’amico Jovellanos, esponente di spicco dell’Illuminismo spagnolo, colto in un’espressione melanconica che ci porta dritti nell’atmosfera del Romanticismo, accentuata da una smaterializzazione del colore.
Il figlio di Goya scrisse come il padre a un certo punto avesse deciso di impugnare «il coltello da pittore», ma già quando ancora lavorava alla Reale Manifattura di Arazzi aveva toccato i temi sociali raccontando dei giochi di bambini in ambienti poveri. Su questo versante troviamo, bellissimo e drammatico, “Il manicomio”, passando poi da “Il Colosso” (che il Prado aveva tolto dal catalogo di Goya per poi reinserirlo), ancora legato al tema della guerra, per arrivare all’ “Autoritratto” del 1815, in cui sembra cogliere la propria spiritualità, in evidente contrasto con quello da pittore dandy del 1785, posto all’inizio della mostra. Per finire poi con “El tio Paquete” (1819-1820), ritratto di un medicante cieco di Madrid, che precorre Bacon e il suo mondo. Tutto scorre a dimostrazione di un percorso evolutivo arrivato fino alle “pitture nere” (riflessioni sul destino e sulla crudeltà dell’uomo) sulle pareti della sua ultima casa spagnola e alla sua morte, arrivata nell’ex nemica Francia, dove si era rifugiato in volontario esilio. In patria era stato guardato con sospetto anche dalla terribile Inquisizione e possiamo capirlo da un altro dipinto che esalta questa mostra, “Scena di Inquisizione” (1808 – 1812), dove un’atmosfera tetra e un sapiente uso di buio e luce ricreano angoscia e alludono all’oscurantismo intellettuale.
Ma certamente sono le incisioni, dai famosi “Capricci” ai già citati “Disastri della guerra”, a metterci in contatto con il Goya più profondo, dove troviamo rabbia e ironia, disprezzo e speranza, gli asini che insegnano e il sonno della ragione, con un crescendo emotivo, costruttivo e distruttivo nello stesso tempo, che lo può far considerare nostro contemporaneo.
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