«Che orgoglio essere tua figlia»! È un moto appassionato di figlia di un padre speciale quello di Sara Doris in «Ennio mio padre» (Piemme), dedicato a Ennio Doris, il grande innovatore del settore bancario italiano, fondatore di Mediolanum, scomparso nel 2021 (era nato a Tombolo, nella provincia padovana, nel 1940). Un racconto che oscilla tra il linguaggio dell’interiorità e quello dell’esemplarità; che alterna, a tratti con tono “fiabesco”, momenti di rievocazione biografica e autobiografica, con tante vite che vivono una dentro l’altra, frutto della ricerca di Sara nell’archeologia della sua famiglia, e altri di lettura “politica” del Paese.
Non solo la storia di un costruttore di sogni, capace di una visione del futuro, ma anche dell’Italia rurale tra le due guerre, poi di quella difficile del dopoguerra e quindi del boom economico. E Sara, vicepresidente di Banca Mediolanum e presidente della Fondazione Ennio Doris, cui sono destinati i proventi del libro, si assume la responsabilità della scrittura in prima persona per parlare di questo grande papà, homo faber fortunae suae: ha costruito il successo, Ennio Doris, come scrive nella prefazione il figlio Massimo, amministratore delegato della realtà Mediolanum in Italia, ma «il successo non ha nutrito il suo ego, bensì la sua voglia di fare». Senza che mai dimenticasse la storia familiare, perché «l’amore quando c’è fa luce» aggiunge nella postfazione Lina Tombolato Doris, la moglie amatissima da Ennio sin da ragazzina.
Inizia, Sara, dal trisavolo Valentino Doris, un bambino esposto, portato a Tombolo dalla Congregazione di carità della Regia Città di Vicenza dell’allora Regno Lombardo-Veneto. Crebbe con una nutrice e per vivere si occupava di portare gli animali a Mestre, ebbe «un’onorata discendenza» e tra gli altri Alberto, padre di Ennio e nonno di Sara, che lavorava come intermediatore al mercato del bestiame, in quel borgo, Tombolo, dal nome tondo e musicale, in cui i Doris vivevano una quotidianità modesta e dignitosa che accomunava tante famiglie dell’Italia degli anni 40. Da Alberto e da Agnese nascevano Ennio e Udilla, c’era la guerra ma si viveva il lusso dei rapporti umani, la famiglia aveva «la fortuna di avere intorno un mondo amichevole dentro un mondo impazzito», i parenti, i vicini, quando la carta di giornale era buona per fare un pallone da inseguire d’estate scalzi per le vie del quartiere o per nutrire la cucina economica su cui sobbolliva la zuppa. “Mago” con la matematica sin da bambino, Ennio avrebbe continuato il mestiere di papà Berto se non fosse stato per una brutta nefrite che, dodicenne, lo costrinse a letto per un anno, con nessuna distrazione se non studiare.
Una di quelle «disgrazie che diventano fortune» fu il suo primo kairós, il momento da cogliere; avrebbe continuato gli studi, e a quel primo giorno di scuola con un vestito “ereditato” da altri e riaggiustato dalla sorella sarta, sarebbero poi seguiti sacrifici, speranze, rinunce, ma anche “magie”, forse perché «fino alla fine era rimasto con un piede in quell’età magica in cui tutto era possibile».
Custodendo i suoi talenti, ma anche condividendoli con gli altri, con una determinazione anche in tempi di crisi che ha portato Ennio Doris sempre su nuovi sentieri: dalla piccola filiale bancaria di paese alla Fideuram, all’epoca l’unica azienda italiana che si occupava di intermediazione, dall’incontro con Silvio Berlusconi al 1982, anno del loro atto costitutivo della nuova società, Programma Italia, la prima rete in Italia a offrire consulenza globale nel settore del risparmio, che quindici anni più tardi sarebbe diventata Banca Mediolanum e poi Gruppo Bancario Mediolanum.
Perché, diceva, si poteva sempre fare di meglio, una convinzione oggi passata ai figli che hanno assunto su di sé il respondere latino: rispondere all’impegno preso verso gli altri dando garanzia con la propria parola e il proprio lavoro.
“L’altro” Ennio Doris, il grande banchiere raccontato dalla figlia
Una storia italiana: il genio e la visione ma anche l’aspetto intimo e familiare
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